1. I recenti scandali che hanno riguardato l'ex Margherita e la Lega Nord riportano d'attualità il tema del finanziamento della politica. Com'è stato osservato, la "riforma" varata sull'onda dell'indignazione non ha in alcun modo toccato i punti più urgenti, quali in particolare il livello esorbitante di risorse che i partiti si sono autoattribuiti; la duplicazione o triplicazione dei "rimborsi", che continuano ad esser corrisposti per

tutto il periodo originariamente previsto anche in caso di fine anticipata di una legislatura; il fatto che non ci sia alcuna corrispondenza tra soldi spesi e soldi "rimborsati", cosicché quello che viene chiamato "rimborso" è in realtà un finanziamento bello e buono, in palese violazione della volontà espressa dagli italiani nel referendum del 1993, quando una schiacciante maggioranza votò per abrogare il finanziamento pubblico ai partiti.

2. Può essere allora interessante, per uscire dagli stretti confini nostrani, gettare uno sguardo all'analogo dibattito che da qualche anno si è acceso negli Stati Uniti, e che diventa particolarmente incandescente in periodi di campagna elettorale come quello attuale.

Negli Stati Uniti, però, il problema è diverso dal nostro: mentre qui lo scandalo verte sull'uso distorto dei fondi pubblici, negli Usa il vero oggetto del contendere è l'influenza dei fondi privati sulle decisioni dei politici che ne beneficiano.

In Italia, il fenomeno delle donazioni da parte di privati alle campagne dei politici o dei partiti non è particolarmente diffuso, o comunque tende a svolgersi nell'ombra, al di sotto del radar di opinione pubblica e giornali. Negli Stati Uniti, invece, il finanziamento della politica è in primo luogo privato, e sottoposto a stringenti obblighi di trasparenza (disclosure). In realtà, negli Usa esistono moltissimi sistemi diversi di finanziamento, in corrispondenza dei tanti livelli di governo e tipi di elezione; esistono anche forme di finanziamento pubblico, la più importante delle quali è quella per l'elezione presidenziale, anche se i candidati possono rifiutarlo e optare per raccogliere fondi privati senza limiti. Il primo a fare questa scelta fu Obama nel 2008.

3. In ogni caso, i privati sono costantemente sollecitati a donare alle campagne elettorali, con donazioni che vanno da un dollaro a milioni. Chiaramente, più è alta la donazione, più è alto il rischio che il donatore chieda qualcosa in cambio dal politico che ha foraggiato, in termini di leggi favorevoli, prebende, favori, commesse.

La politica ha allora provato in vari modi a "legarsi le mani", con l'obiettivo di limitare l'influenza degli interessi privati su di essa. Tuttavia, questi tentativi hanno dovuto confrontarsi con un problema: nello storico caso Buckley v. Valeo (1976), la Corte Suprema ha affermato che i limiti alla possibilità di spendere denaro a favore di un candidato o un partito limitano indirettamente la libertà di esprimere il proprio pensiero, la quale gode di una fortissima protezione costituzionale nel Primo Emendamento, e quindi le limitazioni ad essa non possono essere eccessive.

4. I limiti ai contributi diretti restano comunque legittimi, nella misura in cui servono a "limitare la corruzione del processo politico e le sue manifestazioni", e per la stessa ragione sono legittime le norme che impongono ai candidati di rendere pubblici tutti i finanziamenti ricevuti; altresì legittimo è un sistema finanziamento pubblico (ne era infatti stata posta in dubbio la legittimità). Ma per via delle restrizioni che pongono alla libertà di espressione, nonché di associazione, sono incostituzionali i limiti alle spese fatte per sostenere un candidato in modo autonomo e non coordinato con la sua campagna (le cosidette independent expenditures), i limiti alle spese dei candidati provenienti dai propri fondi personali, e i limiti alle spese complessive per una campagna.

A Buckley sono seguiti una serie di altri casi, fino al recente Citizens United v. FEC (2010), in cui la Corte ha confermato la legittimità degli obblighi di disclosure, ma ha ritenuto illegittime le disposizioni che vietavano a corporations (società in genere) e unions (sindacati) di compiere independent expenditures, perché anche corporations e unions hanno un diritto costituzionale a "parlare" destinando denaro a sostegno di un candidato.

La sentenza ha sollevato molte critiche (in primis da parte del Presidente Obama) che hanno rinfocolato l'indignazione già scatenata da svariati scandali che hanno interessato anche le cronache americane: si è detto in particolare che la tutela estrema della libertà di espressione, per cui ha optato la Corte, avrebbe aperto le porte ad un afflusso incontrollato di denaro nella politica, favorendo la corruzione del sistema e avvantaggiando chi dispone di molto denaro.

Tuttavia, le cose sembrano essere un po' più complesse, e vi sono ottime ragioni per ritenere che invece la decisione della Corte sia ampiamente condivisibile. Vi è in particolare un aspetto che riteniamo debba far premio su qualunque considerazione di segno contrario: l'afflusso di grossi finanziamenti privati alla politica, così come l'esplosione del fenomeno del lobbying, sono la diretta conseguenza del progressivo aumento dell'intermediazione pubblica della vita economica e sociale. Più in particolare, sono una sorta di risposta e difesa alla facoltà del potere politico di decidere così tanto della vita di cittadini, imprese e gruppi sociali.

Di conseguenza, maggiori sono i poteri della politica, maggiore è l'interesse a influenzarla: sia a monte, tramite il sostegno a candidati e partiti in fase di campagna elettorale, sia a valle, con l'attività di lobbying sui politici eletti. Limitare le facoltà dei privati di provare a influenzare la politica vuol dire lasciarli in balia di quest'ultima, per cui bene ha fatto la Corte Suprema americana a restaurare un'ampia libertà di autodifesa di corporations e unions.

5. Queste considerazioni si applicano perfettamente anche al caso italiano, dove l'intermediazione pubblica è ancora maggiore. La lezione di libertà della Corte Suprema americana, e in generale le vicende del finanziamento elettorale negli Usa, ci consegnano questi insegnamenti, che è utile tenere presente nel momento in cui ci si accinga a riformare il sistema italiano: non necessariamente la maggior disponibilità di fondi privati è appannaggio dei candidati conservatori, come dimostra la scelta di Obama nel 2008, e con ogni probabilità ripetuta quest'anno, di rinunciare ai fondi pubblici, consapevole di poterne raccogliere molti di più dai privati; il finanziamento pubblico quindi non necessariamente pone i candidati in una posizione di uguali opportunità, ma anzi rischia seriamente di avvantaggiare chi è già in carica (incumbent) o comunque è già noto; e infine, se si ha timore degli effetti di una cattura dei decisori pubblici da parte degli interessi privati, l'unico rimedio coerente con la tutela della libertà di parola e di associazione è di diminuire il potere in mano ai decisori pubblici, così da diminuire automaticamente l'incentivo degli interessi privati ad "acquistarseli" a suon di dollari e lobbisti.