In Italia abbiamo la tendenza a immaginare che se le cose non funzionano basta cambiare la legge per metterle a posto. Questo in certi casi è vero – vi sono leggi tecnicamente malfatte – in altri tuttavia lo è molto meno, nel senso che il problema vero sono i comportamenti, le interpretazioni che delle leggi si danno, la loro applicazione pratica, e non – o solo in via molto secondaria – il dettato normativo in quanto tale.

Conformemente a questa abitudine, oggi tutti ripetono che fra le priorità che dovrà darsi un nuovo governo, se e quando lo avremo – anzi fra le ragioni per le quali è indispensabile che un governo si costituisca – vi sarebbe la riforma della legge elettorale, in assenza della quale, recita il coro, “non si può tornare a votare”. Vale la pena interrogarsi sulla fondatezza di questa tesi; in particolare – dato per scontato che il cosiddetto porcellum sia una pessima legge – vale la pena chiedersi se il problema che le elezioni hanno messo in luce, ossia la quasi impossibilità di comporre un governo, abbia realmente come causa prima la formulazione della legge elettorale (pure progettata proprio per massimizzare il rischio che questo accada). Anticipo la risposta che proverò ad argomentare nel seguito: la causa non è il porcellum, per orrendo che sia, bensì, sul piano tecnico, il cosiddetto bicameralismo perfetto e, sul piano sostanziale, il modo in cui è strutturata l’offerta politica. Se non si risolvono questi due problemi – ossia, se non si esce dal bicameralismo perfetto e se i “prodotti” politici offerti agli elettori al momento del voto non cambiano – non c’è alchimia di legge elettorale che possa incollare i cocci.

1. Cominciamo dalle questioni tecniche. Nel sistema costituzionale italiano Camera e Senato hanno gli stessi identici poteri: una legge – qualsiasi legge – per essere tale richiede l’approvazione dello stesso testo da parte di entrambe le Camere; un governo – qualsiasi governo – per essere tale deve avere e mantenere la fiducia di entrambe le Camere. La regola elettorale costituzionale che presiede alla legge elettorale e a cui questa deve conformarsi è però diversa per le due assemblee: il Senato infatti deve essere eletto su “base regionale” (art. 57 Cost.), a differenza della Camera che è eletta su base nazionale (art. 56); e il corpo elettorale è diverso, perché per votare al Senato occorre avere compiuto i 25 anni di età (art. 58).

In pratica, e con riferimento alle elezioni del 2013, i dati del Ministero dell’Interno dicono che per la Camera hanno diritto di voto 4.700.000 persone in più rispetto al Senato, e hanno effettivamente votato 3 milioni e mezzo di elettori in più (pari al 10 per cento esatto sul totale dei votanti alla Camera stessa). Questo significa che, con un meccanismo di trasformazione dei voti in seggi necessariamente diverso fra le due Camere, e con un elettorato anch’esso diverso, è sempre possibile in linea teorica, quale che sia la legge elettorale vigente, e tanto più se maggioritaria, che le due Camere restituiscano maggioranze politiche diverse. Questo risultato infatti era stato sfiorato in occasione della formazione del primo governo Berlusconi nel 1994, epoca in cui peraltro non c’era il porcellum, e del secondo governo Prodi nel 2006, con il porcellum. Ma allora l’offerta politica era strutturata diversamente, il che consentì ex post che il vincitore di misura riuscisse a formare il governo. Si aggiunga che il risultato è tanto più probabile quanto più – come avvenuto nel 2013, in cui fra i giovani il voto per il M5S è stato largamente prevalente – le scelte si differenziano per appartenenza generazionale.

Per chiudere sul punto. La certezza di non ritrovarsi maggioranze diverse fra Camera e Senato si può avere in due soli modi: o stabilendo che entrambe le Assemblee vengano elette con il medesimo meccanismo di trasformazione dei voti in seggi e dal medesimo corpo elettorale, o dando poteri differenziati alle due Camere, in particolare prevedendo che la fiducia la dia solo una Camera e l’altra si esprima esclusivamente in casi e per materie specificate, nonché magari prevedendo per una delle due Camere un’elezione di secondo grado (com’è il Bundesrat tedesco, i cui membri sono designati dai governi dei Länder). Guardando a come sono organizzate le democrazie europee, si vede che la prima soluzione non la adotta nessuna (che senso avrebbero infatti due Camere “fotocopia” l’una dell’altra, anche in termini di competenze?); la seconda – quella della differenziazione dei poteri nonché del metodo di elezione – è invece largamente diffusa. In ogni caso, da questo punto di vista il problema si risolve con modifiche di rango costituzionale, e non con aggiustamenti della legge elettorale.

2. Guardiamo invece alla legge elettorale in quanto tale. Dietro a molte delle invocazioni a cambiarla levatesi dopo il 25 febbraio si avverte la non dichiarata convinzione che un’altra legge elettorale avrebbe impedito o potrebbe impedire in futuro il successo del Movimento 5 Stelle. Questo è, semplicemente, falso. È bensì vero che fra le manifestazioni della pervicacia della “casta” che più hanno infastidito i cittadini (o almeno i commentatori politici) vi è stato il rifiuto di intervenire sul porcellum: ma solo in questo senso si può dire che la legge elettorale è causa del successo dei 5 Stelle.

La verità è che in qualsiasi democrazia degna del nome un partito che raggiunga il 25 per cento dei consensi finirà con l’avere una rappresentanza in seggi elevata e molto facilmente determinante per la formazione della maggioranza. Due esempi bastano a dimostrarlo.

Uno è il caso del Front National in Francia. Questo, per un verso, non è mai andato oltre il 14-15 per cento. A impedirgli di “monetizzare” questi consensi in seggi, per altro verso, è stato il costante rifiuto dei partiti tradizionali di destra a fare alleanze con il Front al secondo turno, a rischio di perdere alcuni seggi; e anche quando nel 2002 per effetto delle divisioni della sinistra Jean Marie Le Pen andò al ballottaggio per le presidenziali contro Jacques Chirac, furono i partiti della sinistra a far confluire i loro voti su Chirac per scongiurare l’elezione di Le Pen. In sostanza, la relativa “irrilevanza” del Front National si deve al fatto che i suoi candidati hanno di rado superato la soglia (alta, ma pur sempre al 12,5 per cento, ossia la metà esatta del voto del M5S) per il passaggio al secondo turno, ma poi anche alla scelta politica dei partiti di centro-destra di non allearsi in nessun caso con il FN, correndo così il rischio di non conquistare la maggioranza dell’Assemblea.

Per converso, si può guardare all’Inghilterra: il più bipolarista dei sistemi (tale per storia e conseguentemente per legge elettorale) ha dovuto comunque nel 2010 acconciarsi a un governo di coalizione fra conservatori e liberali, in presenza di un risultato che, oltre a dare ai liberali il 23 per cento (il loro secondo miglior risultato dopo il 25,4 del 1983), non aveva dato né ai laburisti né ai conservatori voti in numero sufficiente o abbastanza ben distribuiti da trasformarsi nella metà più uno dei seggi alla Camera dei Comuni.

3. A riprova, basti immaginare che cosa sarebbe accaduto in Italia il 24-25 febbraio se si fosse votato con un meccanismo di collegi uninominali a doppio turno, sistema sul quale nell’autunno del 2012 il parlamento sembrava poter raggiungere un accordo. Partiamo dal fatto che la mappa del consenso elettorale è disegnata per grandi aree geografiche. Come ha mostrato l’Istituto Cattaneo, il M5S è il primo partito nelle cosiddette “regioni bianche” (il Nord-Est) e nel Sud-Isole; è il secondo nella “regioni rosse” (il Centro) e in parte del Nord-Ovest. Questo significa che nella maggior parte dei casi al ballottaggio sarebbero andati il candidato del M5S e, alternativamente, un candidato del centro-destra o uno del centro-sinistra: ben di rado, in altre parole, si sarebbe avuto un ballottaggio destra-sinistra.

E a quel punto? Non ci vuole molto a prevedere che, come già accaduto per alcuni comuni nella primavera del 2012, l’ostilità fra i due schieramenti “storici” avrebbe indotto molti elettori della coalizione non ammessa al ballottaggio a votare per il M5S, pur di scongiurare l’elezione dell’”odiato nemico”. In sostanza, in questo clima politico, con questa strutturazione dell’offerta, con ogni probabilità il sistema francese avrebbe addirittura amplificato il successo di Beppe Grillo (nota bene: sarà questa la ragione per cui negli 8 punti proposti da Bersani ai 5 Stelle per un accordo di governo non vi è traccia di riforma della legge elettorale, di cui peraltro non si parla nemmeno nel programma del M5S?).

4. Per concludere. Primo, non è vero che le elezioni di febbraio non abbiano “dato una maggioranza”: di maggioranze possibili in parlamento ce ne sono ben due, una fra Pd e M5S e l’altra fra Pd e Pdl. La questione è che il clima politico e i rapporti fra i partiti sembrano per ora renderle impraticabili entrambe. Questo però è il problema di com’è fatta la politica in Italia, dell’estremismo e della faziosità che la hanno contraddistinta in questi anni: è dunque, di nuovo, un problema assolutamente di sostanza e non di tecnica elettorale.

Secondo, l’altra accusa che viene fatta al porcellum, ossia quella di lasciare la designazione degli eletti agli apparati dei partiti, escludendo gli elettori dalla scelta, è anch’essa a doppio taglio. Si può ricordare che le preferenze che adesso da più parti si vorrebbero reintrodurre furono abolite vent’anni fa proprio per “restituire lo scettro al principe”, ossia depotenziare quei medesimi apparati di partito detentori del “controllo delle tessere”. La questione, ancora una volta, è quella del “come” il ceto politico usa la legge, più che della legge in sé. E si può dire inoltre che il successo del M5S si è avuto non “nonostante che” i suoi candidati fossero sconosciuti, bensì a mio avviso “proprio perché” lo erano. Ha prevalso insomma, nella generale rabbia e disistima verso la classe politica, l’idea che “se lo conosci lo eviti e se lo eviti non ti uccide”, come diceva una delle prime campagne di informazione sull’Aids.

Infine: resto convinta che elezioni a breve siano inevitabili, e resto convinta anche che sarebbero una buona cosa. A condizione, lo ripeto, che l’offerta politica cambi e il clima si svelenisca. Se questo avvenisse, tuttavia, sarebbero davvero possibili modifiche costituzionali sensate e una legge elettorale coerente. Altrimenti, non creiamoci problemi finti, dio sa se in questo momento non ne abbiamo abbastanza di veri. Che il prossimo governo, se nasce, si occupi dell’emergenza economica, ce n’è più che abbastanza. Quanto alla legge elettorale, piuttosto che avere un accrocco mal congegnato e ispirato alla tutela di interessi di parte, di breve o brevissimo periodo, teniamoci il porcellum. La scienza politica ha dimostrato che gli elettori “imparano” a usare le leggi elettorali, ossia a prevederne gli effetti e a votare di conseguenza. Se dovessimo tornare al voto a breve e in maniera concitata (il che non può affatto essere escluso), almeno alla quarta prova gli italiani avrebbero in mano uno strumento di cui sanno quali effetti produce e quali rischi si corrono votando – o non votando – in un certo modo.