All'esame di diritto dell'ambiente, una delle domande più temute dagli studenti è senza dubbio l'organizzazione amministrativa. Questo perché le competenze ambientali - pianificazione, autorizzazione all'esercizio di attività incidenti sull'ambiente, controlli, sanzioni - sono distribuite tra i diversi enti pubblici in modo frammentato e disorganico. È ovvio che questo non agevola nessuno: né gli studenti all'esame (il che è grave, ma pur sempre rimediabile), e nemmeno gli operatori economici, quelli del diritto e, come si dirà, persino le stesse pubbliche amministrazioni.

Andiamo con ordine. Oltre alle funzioni degli enti territoriali (Stato, Regioni, Province e Comuni), il cui assetto, soprattutto dopo la riforma federalista del 2001, appare molto confuso, bisogna tenere conto delle numerose competenze attribuite in modo disordinato ad altre amministrazioni, a volte istituite ad hoc. Basti pensare agli enti parco, alle autorità di bacino, alle camere di commercio, alle aziende sanitarie, alle autorità d'ambito, tutti enti chiamati a svolgere funzioni di tutela dell'ambiente. Si assiste così a un intreccio di competenze che non di rado provoca sovrapposizioni di poteri: così può accadere che un corso d'acqua sia tutelato da più enti, a seconda del tipo di attività inquinante, del luogo in cui questa è svolta o di quale intervento di salvaguardia (pianificazione, autorizzazione, controllo, sanzione, ecc.) si deve attuare. 

Un quadro complicato e carente di principi e criteri generali. Per sapere chi fa e che cosa (ad esempio, quale amministrazione autorizza, controlla, sanziona una certa attività inquinante) occorre studiarsi la specifica disciplina posta a protezione del bene ambientale interessato dall'inquinamento (atmosferico, idrico, elettromagnetico, acustico, ecc.). Sempre oltretutto con il timore di sbagliare, stante la miriade di leggi e leggine che si susseguono a ritmo incessante, peraltro oggetto di continue modifiche. Né sul punto ha apportato i miglioramenti che ci si aspettava il codice dell'ambiente (il decreto legislativo 152/2006). Oggetto di reiterati rimaneggiamenti, esso trascura inoltre importanti settori (si pensi all'inquinamento acustico, a quello elettromagnetico, al traffico veicolare, alla mancata regolazione di flora, fauna, habitat e aree protette), e comunque è figlio della logica di disciplinare in modo differenziato la tutela dalle diverse forme di inquinamento/dei differenti elementi dell'ambiente. 

Ma il problema è anche di capire, all'interno di una stessa amministrazione, quali sono i compiti delle diverse strutture organizzative che la compongono. Emblematico è il caso "storico" delle sovrapposizioni di competenze che, a livello statale, hanno interessato per oltre un decennio i "vecchi" ministeri dell'ambiente, per i beni culturali e ambientali, dei lavori pubblici e per le politiche agricole. 

Le cose sono migliorate da quando il decreto legislativo 300/99 ha istituito il nuovo ministero dell'ambiente e della tutela del territorio (e del mare, a partire dalla legge 233/06), cui sono state trasferite pressoché tutte le funzioni ambientali prima esercitate dagli altri dicasteri. Ciò ha però inevitabilmente comportato un appesantimento della macchina burocratica. Al pari di quanto avviene per gli altri enti, che quando il legislatore affida loro nuove funzioni ambientali sono costretti a dotarsi di nuovi apparati (di volta in volta chiamati "settore", "area", "direzione", "comitato", "commissione", ecc.), anche il ministero dell'ambiente ha visto aumentare il peso della propria organizzazione, oggi composta da cinque direzioni generali (a loro volta articolate in trentanove divisioni) coordinate da un segretariato generale, nonché da otto comitati e commissioni. 

Sempre a livello statale, un recente intervento di razionalizzazione è il regolamento 123/10, con cui l'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (Apat), l'Istituto nazionale per la fauna selvatica (Infs) e l'Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare (Icram) sono definitivamente confluiti nell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), che con le inerenti risorse finanziarie, strumentali e di personale ne esercita le rispettive funzioni. Tra queste ultime sono fondamentali quelle di carattere tecnico-scientifico e di consulenza a supporto del ministero e di altri enti pubblici, svolgendo attività di raccolta, elaborazione e conservazione dei dati ambientali, di formulazione di pareri, di verifica e controllo, nonché di indirizzo e coordinamento tecnico nei riguardi delle agenzie regionali di protezione dell'ambiente (Arpa). 

Anche queste sono un ulteriore tassello organizzativo. Esse esercitano in buona sostanza le funzioni dell'Ispra nelle singole Regioni, a supporto degli enti regionali (comprese le Asl) e di quelli locali. Attività specialistiche (ispezioni, sopralluoghi, ispezioni, misurazioni, monitoraggi, ecc.) di cui Regioni ed enti locali hanno bisogno per esercitare le loro competenze a tutela dell'ambiente. Il problema è però che molte Arpa sono state commissariate dal governo, in quanto mal gestite al punto di non funzionare. Una situazione che mina il carattere di autonomia di tali enti, aspetto fondamentale anche per garantire la neutralità del loro operato tecnico-scientifico. 

E quanto nel settore ambientale sia importante l'autonomia organizzativa lo denunciano le frequenti polemiche che scaturiscono in relazione all'operato dei comitati e commissioni ministeriali: si pensi al ruolo della Commissione di valutazione di impatto ambientale, i cui pareri di compatibilità ambientale rispetto alle opere sottoposte a Via e Vas sono spesso criticati perché assecondano troppo le politiche governative.