Una creditrice implacabile e una debitrice con molti privilegi. È il ritratto dell'amministrazione italiana, che nei rapporti di obbligazione con i cittadini gode di norme che prevedono un regime di favore e situazioni di supremazia. Sono numerose le misure eccezionali di cui gli enti pubblici possono godere, non sempre giustificabili sulla scorta del perseguimento di interessi pubblici. Vista anche l'ultima «perla» del «blocco dei pagamenti», non possono esserci dubbi: bisogna eliminare privilegi pubblici da «ancien régime».
Principi liberali e eccezioni che sono la regola
Vorrebbero i principi d'ispirazione liberale che fanno parte del Dna del nostro ordinamento giuridico che nei rapporti di credito-debito tra amministrazioni e privati non ci siano differenze. In questi rapporti gli enti pubblici dovrebbero stare su un piano di parità con i cittadini e le imprese. Ciò perché — senza qui considerare il settore fiscale — le fonti delle obbligazioni derivano dal diritto privato (art. 1173 del Codice civile) e non da disposizioni speciali che attribuiscono agli enti pubblici poteri amministrativi. 
Se si analizza meglio la questione, emergono così tante eccezioni a questo principio che la regola sembra in verità l'esatto opposto: le amministrazioni esercitano poteri anche quando non dovrebbero averne. I nostri enti pubblici non riescono a svestire i panni dell'autorità neppure quando sono debitori e spesso godono di vantaggi sulla controparte privata che nulla hanno a che fare con la tutela di superiori interessi pubblici. 

L'esecuzione forzata nei confronti della p.a. debitrice: ma su quale bene?
L'articolo 2740 del Codice civile stabilisce che il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. In pratica, chi non paga un debito sarà assoggettabile ad esecuzione forzata sui propri beni, che vengono venduti all'asta per soddisfare le ragioni del creditore. 
Nei confronti delle amministrazioni pubbliche è però difficile applicare l'esecuzione forzata, perché occorre destreggiarsi tra tutta una serie di deroghe che spesso rendono difficile far valere le proprie ragioni. 
È senza dubbio ragionevole che l'articolo 823 del Codice civile stabilisca che «sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore dei terzi» i beni del demanio necessario (marittimo, idrico e militare) e del demanio accidentale (ad es. strade, autostrade, aeroporti, acquedotti, immobili storici, musei, pinacoteche, archivi, biblioteche): nessuno pretende che si venda all'incanto il Colosseo per soddisfare il credito di un cittadino. Stessa cosa dicasi per i beni del patrimonio indisponibile (ad es., miniere, cave e torbiere sottratte al proprietario del fondo, cose di interesse storico, archeologico e artistico, caserme, armamenti, aeroplani e navi militari, edifici e arredi destinati a uffici pubblici), non espropriabili perché per la giurisprudenza sono tutti impignorabili in quanto volti all'adempimento di un pubblico servizio (articolo 514 del Codice di procedura civile). 
Del tutto ingiustificabile, invece, che molte leggi e sentenze impediscano o limitino l'esecuzione forzata sul denaro pubblico. La spiegazione è che occorre evitare il blocco dell'attività delle amministrazioni, nonché garantirne il buon andamento (Corte costituzionale, sentenza n. 142/1998).
Tutte scuse: facile obiettare che quando un ente pubblico decide di spendere, prima deve accertare la copertura a bilancio, poi deve vincolare la relativa somma con un «impegno di spesa» a destinazione vincolata. Pertanto, i soldi non possono sparire quando è ora di pagare le fatture. 
Né vale tirare in ballo le esauste casse erariali e le note difficoltà della finanza pubblica. Dall'altra parte ci sono infatti professionisti/imprenditori che aspettano pagamenti per mesi e mesi (in media 138 giorni che salgono a 321 nel caso delle Asl, a fronte di una media europea pari a 68 giorni), entrano in sofferenza per mancanza di liquidità (una Pmi su quattro che lavora con le amministrazioni è a rischio chiusura) e non di rado falliscono
Oltretutto, per evidenti ragioni, non ultima quella che utilizzano i soldi del contribuente, alle istituzioni pubbliche spetta anche il ruolo di guida e di indirizzo etico. Discorsi utopistici: lo dimostra il fatto che le amministrazioni non solo pagano in ritardo, ma in più non corrispondono gli interessi moratori che maturano decorsi i 30 giorni dal ricevimento delle fatture. Così violando espressamente le norme del decreto legislativo 231/02 (che ha recepito la direttiva 2000/35/Ce), la cui applicazione riguarda qualunque contratto «tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni» che comporti «la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo» (art. 2).
Per avere gli interessi in mora bisogna allora ricorrere al giudice: peccato che una volta ottenuta la sentenza favorevole, se l'ente continua a non versarli si va incontro ai problemi di esecuzione sopra ricordati. Ammesso di lavorare ancora per quell'ente, dopo averlo citato in giudizio. 

La p.a. creditrice è spietata
Quando però sta dall'altra parte, l'amministrazione non è tenera con i cittadini debitori e si avvale di un regime giuridico speciale per soddisfare i propri crediti. Infatti, per l'esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro che non siano tasse, imposte e tributi locali, grazie all'art. 21-ter della legge 241/90 gli enti pubblici si avvalgono della procedura esecutiva prevista per la riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato (regio decreto 639/10). Alle amministrazioni è sufficiente notificare al debitore l'ingiunzione di versare la somma dovuta entro trenta giorni. Se il cittadino non paga va incontro a procedure esecutive molto rapide ed efficaci (vendita diretta dei beni mobili da parte della p.a. e semplificazioni procedurali nel caso dell'espropriazione forzata sugli immobili). 

Divieto di compensazione e fermo amministrativo: istituti da «ancien régime»
Altra posizione di vantaggio dell'amministrazione si registra nel campo delle compensazioni. 
In primo luogo, soltanto lo Stato può operare compensazioni tra propri crediti e debiti, mentre i cittadini non possono farlo, perché il principio dell'integrità del bilancio richiede che le entrate siano acquisite per il loro ammontare complessivo. In secondo luogo, applicando il «fermo amministrativo» (da non confondere con «le ganasce fiscali»), un'amministrazione statale che vanti una «ragione di credito» (ossia una ragionevole apparenza di fondatezza) nei confronti di un cittadino può impedirgli di incassare il credito che egli al contempo vanta nei confronti di altra organizzazione statale debitrice (art. 69 del regio decreto 2440/23). Grazie al fermo, l'ente creditore può cioè garantirsi senza ricorrere al pignoramento o al sequestro, semplicemente ponendo veto di pagamento ad altro ente (obbligato in tal senso) debitore nei confronti dello stesso privato. Se non è revocato, il fermo è seguito da un provvedimento che dispone che la somma dovuta dallo Stato al privato sia incamerata a titolo di compensazione legale. Un privilegio che la Corte costituzionale (sentenza 67/72) ha ritenuto «necessario alla protezione del pubblico interesse connesso alle esigenze finanziarie dello Stato», anche qualora applicato a rapporti derivanti da contratti pubblici. Proprio rispetto a questi ultimi il fermo sembra, invece, retaggio di una legislazione che deve essere al più presto riformata, perché privilegia in modo anacronistico l'amministrazione a fronte di sacrosanti diritti e pretese dei cittadini e delle imprese. 

Blocco dei pagamenti: da creditori a evasori. 
Ma la sorpresa più bella per i professionisti/imprenditori che lavorano abitualmente con gli enti pubblici è arrivata al ritorno dalle vacanze estive. Infatti, con alcune circolari di agosto 2007 (cui ne hanno fatto seguito altre a settembre), dando corso ad alcune sollecitazioni della Corte dei conti, la Ragioneria generale dello Stato ha affermato che il c.d. «blocco dei pagamenti» è immediatamente applicabile, anche senza il prescritto regolamento governativo. In pratica, prima di pagare importi superiori a 10mila euro, gli enti pubblici e le società a prevalente partecipazione pubblica devono verificare che il beneficiario non sia titolare di cartelle di pagamento inevase per somme pari o superiori a 10mila euro. Se così fosse, le fatture non devono essere liquidate e la morosità del fornitore deve essere segnalata al competente agente della riscossione, che dovrà avviare la procedura del pignoramento presso terzi (art. 48-bis al Dpr 602/73, introdotto dall'art. 2 del decreto-legge 262/06). Uno strumento nato come lotta all'evasione, ma che ha conseguenze inaccettabili. 
In mancanza del regolamento del Governo, il sistema di riscossione non è autorizzato a comunicare dati fiscali. La conseguenza è duplice:

  • invece di essere le amministrazioni a controllare direttamente le posizioni fiscali dei loro creditori, sono questi ultimi a dovere presentare un'autodichiarazione al riguardo;
  • la massa spaventosa di autodichiarazioni (in un mese una Asl ne può accumulare fino a 2000) non serve a nulla, perché non potendo "dialogare" con Equitalia s.p.a., gli enti pubblici non ne controllano la veridicità, limitandosi a ritirarle per poi stiparle negli archivi.
All'atto pratico, dunque, si tratta dell'ennesimo appesantimento burocratico, che non serve a nulla e che finisce solo con il rallentare e l'aggravare i già lenti pagamenti pubblici. 
Inoltre, la soglia dei 10mila euro è troppo bassa: per un'impresa medio-grande è una cifra modesta pensando non solo alle sue fatture, ma anche alle eventuali cartelle esattoriali di cui è titolare, che non di rado non paga perché ne ha contestato l'addebito. Peccato che senza un provvedimento amministrativo o giudiziario di sospensione la cartella impugnata va comunque pagata, altrimenti il blocco dei pagamenti scatta lo stesso. 
Senza contare il fatto che la lotta anti-evasione dovrebbe essere impostata in modo più serio che trasformare un cittadino da creditore in evasore.