Il recente disegno di legge governativo sulla riforma dell'editoria cerca di ingabbiare la forza innovativa di internet, equiparando i siti di informazione e divulgazione alle grandi testate giornalistiche e sottoponendoli a lacci e lacciuoli burocratici incompatibili con la libertà del web. Una pessima prova del Governo, che non riesce a scrollarsi di dosso la voglia di autorizzare e controllare la libera manifestazione del pensiero. Non solo non si liberalizza ciò che è già saldamente in mano pubblica, ma si cerca di assoggettare anche ciò che non lo è ancora.
Riforma dell'editoria: cattive notizie per internet
Il 12 ottobre 2007 il Governo ha approvato il testo del disegno di legge sulla nuova disciplina dell'editoria, il cui art. 7 prevede l'obbligo di iscrizione al Roc (il Registro unico degli operatori di comunicazione) per tutti i «soggetti che svolgono attività editoriale su internet». La stessa norma prevede che questa iscrizione «rileva anche ai fini dell'applicazione delle norme sulla responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa».
A prima vista nulla di male. Se l'attività editoriale è quella svolta su internet dalle testate giornalistiche distribuite in edicola, può anche apparire logico che la normativa ad essa applicabile sia la stessa cui è sottoposta l'editoria quotidiana e periodica diffusa su carta stampata. 
Ma se si analizza con più attenzione il Ddl, arriva la cattiva notizia. 
L'«attività editoriale» è definita dall'art. 5 come «ogni attività diretta alla realizzazione e distribuzione di prodotti editoriali», anche se svolta «in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative».
Secondo l'art. 2 il prodotto editoriale è quello «contraddistinto da finalità di informazione, di formazione, di divulgazione, di intrattenimento, che sia destinato alla pubblicazione, quale che sia la forma nella quale esso è realizzato e il mezzo con il quale esso viene diffuso».

Il Governo non passa l'esame di diritto costituzionale
Se mettiamo insieme i vari tasselli del Ddl, ne esce il seguente quadro: i siti di informazione/intrattenimento/divulgazione aperti e gestiti per pura passione sono equiparati ai grandi quotidiani e periodici della carta stampata. C'è di che trasecolare. Ed infatti lo sbalordimento è iniziato a rimbalzare in rete, scatenando le prime proteste (guarda caso sul blog più letto e famoso: www.beppegrillo.it). 
Molte le critiche da fare, giuridiche e di respiro più generale. Iniziamo da quelle di diritto. 
Primo problema: su quale base richiedere l'iscrizione al Roc? Prendendo a riferimento il dominio «.it»? E se il dominio fosse di un Paese straniero o, perché no, «.eu», bisogna registrarsi? Due semplici quesiti che evidenziano l'assurdità di prevedere un registro tenuto secondo logiche territoriali (il Roc è gestito da un'amministrazione italiana che di certo non può estendere i suoi poteri al di là dei confini nazionali) per un'attività che, viste le caratteristiche di internet, è per sua stessa natura l'emblema della globalizzazione. 
Secondo problema. Dal punto di vista amministrativo, l'iscrizione al Roc di tutti i siti internet – riviste on line, blog, forum e via discorrendo - che sono assimilabili, secondo l'ampissima definizione offerta dal Ddl, a "prodotti editoriali" è contraria allo scopo del registro in questione, che si dovrebbe limitare alla tutela della trasparenza, della concorrenza e del pluralismo nel settore editoriale (legge 249/97, vigente, e art. 6 del Ddl). Non è un caso che oggi l'obbligo di registrazione riguardi gli imprenditori del mondo editorialeart. 2 della delibera n. 236/01/CONS e che il compito di registrazione spetti all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ossia all'amministrazione indipendente che deve assicurare la corretta competizione degli operatori di questo mercato. 
L'iscrizione al Roc serve dunque a rendere «noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica» (art. 21, quinto comma, Cost.), garantendo la concorrenza e la trasparenza del settore. Peccato che nulla hanno a che vedere con questa ratio legis la stragrande maggioranza dei siti impegnati in attività di tipo editoriale su internet. Di più: posto che essi sono evidentemente altra cosa rispetto alla «stampa periodica» propriamente detta (quella cioè controllata dai grandi gruppi editoriali), questo adempimento burocratico non solo non è coerente con il citato art. 21, quinto comma, Cost., ma addirittura viola il primo comma dello stesso articolo, secondo cui: «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Come si fa a costringere un privato, che senza fini di lucro apre un sito di informazione/intrattenimento/divulgazione, a sobbarcarsi gli stessi adempimenti burocratici e costi di un gruppo editoriale che distribuisce con lauti profitti i suoi prodotti in Italia e all'estero? 
Né vale dire (anzi, è mostruoso dire), come fa il Governo, che spetterà all'Autorità per le comunicazioni a indicare quali soggetti e quali imprese saranno tenuti a registrarsi nel Roc. Ma come, la disciplina di una libertà fondamentale (quella di manifestazione del pensiero) rimessa a un regolamento amministrativo? È così che il Governo tratta i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico? Com'è poi possibile pensare di rimettere ad un'autorità indipendente (dunque politicamente irresponsabile) il potere di regolare le modalità di esercizio di un diritto costituzionalmente garantito? Il Governo torni a studiare: con errori simili non si passa l'esame di diritto costituzionale. 

Tutti come il Corriere della sera!
Come visto, il Ddl stabilisce che l'iscrizione al Roc di tutti i soggetti che esercitano attività editoriale su internet comporta che ad essi sia applicabile la normativa sui reati a mezzo stampa. 
Questa norma estende ai siti di informazione la diffamazione a mezzo stampa, che oggi riguarda le testate giornalistiche iscritte negli appositi registri conservati dai tribunali (art. 5 della legge 47/48). Registri, che il disegno di legge intende eliminare, inglobandoli nel Roc, la cui iscrizione «è condizione per l'inizio della pubblicazione dei quotidiani e dei periodici».
Ottima l'idea di semplificare ed eliminare le duplicazioni burocratiche (da due registri ad uno solo); buona l'idea di tutelare l'individuo dal reato di "diffamazione a mezzo web", pessima quella di estendere in modo generalizzato e burocratico ai siti internet amatoriali le responsabilità penali dei giornali. A questo proposito occorre ricordare che la diffamazione a mezzo stampa (art. 595, terzo comma, del codice penale e art. 13 della legge 47/48) è punita più duramente della diffamazione semplice e comporta la responsabilità penale del direttore responsabile, dell'editore e dello stampatore (art. 596-bis del codice penale). Posto che l'offesa alla reputazione fatta da un giornale ha «l'aggravante» di essere più incisiva e amplificata, allora la pena deve essere maggiore. Se questo è il senso della norma, del tutto evidente che non può dirsi che tutti i siti amatoriali/personali possano essere equiparati al... Corriere della sera. 

Oltre al danno la beffa
Peccato che alle equiparazioni in negativo non corrispondano quelle in positivo. Se oggi essere iscritti al Roc significa poter godere dei benefici e delle agevolazioni previste dalla legge (contributi per la stampa periodica, detassazione delle spese di spedizione e di quelle volte all'innovazione), nel sistema architettato dal Governo nel Ddl, il Roc è una cosa, gli interventi a sostegno delle attività editoriali è tutt'altra. E sì, perché quando è ora di definire a chi spettano i «ricchi premi» annuali, il disegno di legge è molto chiaro nell'escludere i privati e i piccoli, gli amatori, prevedendo che i beneficiari possono essere soltanto (art. 17):

  • cooperative giornalistiche editrici di quotidiani e periodici costituite da almeno cinque anni;
  • imprese editrici di quotidiani e periodici, anche su internet, che siano riconosciuti come propria espressione da forze politiche rappresentate nel Parlamento nazionale o europeo;
  • imprese editrici di quotidiani costituite in forma societaria la cui maggioranza delle azioni o quote sia detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali senza finalità di lucro;
  • imprese editrici di giornali quotidiani destinati alle minoranze linguistiche della Valle d'Aosta, del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia;
  • imprese editrici di quotidiani italiani pubblicati e diffusi all'estero.

Chi pubblica piccoli siti internet e blog è uguale alle imprese editrici per quanto riguarda l'iscrizione al Roc e l'applicabilità della legge penale; del tutto diverso in relazione al sostegno pubblico dei prodotti editoriali. Ma è la motivazione sottesa ai contributi che lascia senza parole: essi sono diretti a «promuovere il pluralismo dell'informazione, la cultura e la lingua italiana, la tutela delle minoranze linguistiche». Viene da pensare che tutte queste belle cose possano farle solo quelli che le vendono guadagnandoci e non chi le fa gratis, animato dalla sola passione. 

Per il Governo l'informazione la fanno solo i giornali
Ne siamo proprio sicuri? 
Forte di una radicata tradizione di finanziamenti e facilitazioni pubblici di cui beneficia l'editoria italiana, il Ddl prevede che le imprese editrici godranno, per ciascuna testata giornalistica quotidiana o periodica pubblicata: 

  • di un contributo annuo d'importo pari al 40% dei costi di edizione, fino a un massimo di 2,2 milioni di euro per ciascuna impresa;
  • di un contributo annuo pari a 200mila euro per tiratura netta media compresa tra 10.001 e le 50mila copie, cui si aggiungono 400mila euro per ogni scaglione di 10mila copie di tiratura netta media compresa tra le 50.001 e le 150mila;
  • di un credito d'imposta pari al 50% dei costi sostenuti per le spedizioni in abbonamento;
  • di un credito d'imposta pari al 15% degli investimenti diretti all'innovazione, con particolare riferimento alla nuove tecnologie dell'informazione e alla multimedialità.

Ecco, nel nostro piccolo, riportando questi dati, siamo sicuri di avere «fatto informazione» e di avere contribuito al «pluralismo dell'informazione». In attesa che le testate giornalistiche riportino le prebende pubbliche previste dal Ddl (anche tutte quelle qui tralasciate per brevità) e che denuncino che questo sistema di «soldi a pioggia» oltre ad essere contrario alle leggi di mercato è anche assai rischioso per l'indipendenza del settore. 

Libertà di espressione e intermediazione pubblica
Sui punti messi in evidenza, il Ddl segna un passaggio poco convincente sul piano dell'azione di governo. Soprattutto pone una luce non chiara sull'effettiva adesione a quei principi e valori su cui si dovrebbero fondare gli assetti di una moderna democrazia liberale. Ogni cittadino che nel futuro voglia esercitare il proprio diritto di espressione, facendo informazione, divulgazione, intrattenimento via internet si troverà un'Autorità che vigila su di lui, sarà costretto ad adempiere ad un certo numero di formalità amministrative, dovrà stare molto attento a cosa dice e a come esprime le proprie opinioni alla luce di importanti responsabilità penali. E tutto ciò anche se non ci si guadagna un euro. 
Emerge la concezione di uno Stato invasivo, intento a intermediare ogni aspetto della vita, anche l'utilizzo del web a fini editoriali, che, vale la pena sottolinearlo, costituisce un modo tipico di fruizione del web. 
Questa idea che anche per scrivere su internet, allo scopo di "tutelare e promuovere il pluralismo dell'informazione", si debba firmare un registro, produrre certificati, pagare un bollo, accumulare scartoffie, consultare un avvocato per capire quanti anni di galera e quanti soldi si rischiano per un attimo di distrazione è la manifestazione evidente di una cultura lontana dal considerare lo Stato come tutore ultimo degli spazi individuali di libertà. 
Una cultura di governo che ha già scontato il fallimento sul terreno delle liberalizzazioni. Invece di provare a dare risposte politiche e legislative al bisogno — universalmente riconosciuto e la cui soddisfazione non può più attendere — di estendere e promuovere i tanti spazi di libertà individuale oggi ingabbiati e mortificati, con questa iniziativa il Governo moltiplica e intensifica le prerogative di intervento sulle dinamiche di esercizio di libertà costituzionalmente garantite.