L’intervento militare in Siria recentemente annunciato dagli Stati Uniti pone moltissimi interrogativi, sia di natura politica (§1) che di natura morale (§2). A questo riguardo, è dunque di fondamentale importanza capire se quella che potrebbe scatenarsi in Siria possa essere considerata una guerra giusta (§3).

 

1. La prospettiva di un intervento militare in Siria tormenta le principali potenze mondiali. Da un lato ci sono i problemi più prettamente politici. La questione, infatti, non solo rimette in gioco antichi schemi di contrapposizione geopolitica (la cui massima espressione si è raggiunta con la formulazione di vere e proprie liste di paesi contro e paesi a favore della soluzione militare, ma mostra anche l’inettitudine di un’Europa paralizzata e senza la benché minima leadership.

La Gran Bretagna ha prima deciso di schierarsi al fianco di Obama e poi ha trovato più conveniente non intervenire, mentre la Francia di Hollande pare essersi fatta avanti per coprire problemi interni, legati al consenso del governo centrale. Ma a lasciare perplessi è soprattutto la Germania che si è chiusa in un imbarazzante silenzio. Evidentemente le elezioni imminenti e la preoccupazione per gli interessi economici tedeschi hanno spinto la cancelliera Merkel a glissare sulla questione, mostrandone tutta l’incapacità politica. Non si può certo essere il motore economico di un continente e rivendicare duramente tale posizione solo quando fa comodo, ignorando le responsabilità politiche che ne conseguono.

Se da un canto si moltiplicano dunque gli interrogativi politici, dall'altro non meno numerose sono le questioni che riguardano più direttamente il carattere dell’intervento e la sua natura.

L’intervento militare pensato da Obama, con tempi e modalità limitate  non permette di avere certezze rispetto alla sua efficacia. Le cose che potrebbero andare storte sono innumerevoli e i possibili scenari negativi, immaginati da Ezra Klein in un articolo uscito sul Washington Post il 5 Settembre, pongono interrogativi a cui nessuno sembra essere in grado di rispondere con ragionevole certezza.

2. È curioso come in questi giorni un punto poco dibattuto sia quello che riguarda la giustificazione morale di un intervento armato in Siria. Quando l'argomento viene affrontato, l'azione militare annunciata da Obama viene messa sullo stesso piano della decisione di intervenire in Kosovo, nonostante le due circostanze siano difficilmente paragonabili. Non solo in Kosovo gli obiettivi militari erano chiari (fermare Slobodan Milosevic e ridare autonomia alla regione) e le situazioni circostanti favorevoli (l’Europa degli anni Novanta non può certo essere paragonata al Medio Oriente di oggi), ma soprattutto la situazione interna al paese era più chiara (l’Esercito di Liberazione del Kosovo era un interlocutore con cui si poteva stabilire un dialogo, mentre in Siria non è per nulla chiaro chi e quanti siano i ribelli e cosa vogliano).

Quando ci si interroga sul rapporto fra guerra e etica, esistono tre punti di vista privilegiati da cui considerare la questione. Il primo è quello del pacifismo, una prospettiva filosofica e politica di stampo assolutista secondo la quale la guerra è sempre moralmente riprovevole. In opposizione al pacifismo, c’è il punto di vista realista secondo cui, per dirla con la famosa formula di Von Clausewitz, “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. Infine, esiste la teoria della guerra giusta che si pone in una posizione mediana rispetto ai due poli estremi appena indicati. La teoria della guerra giusta, infatti, si fonda sull’idea molto controversa che talvolta gli stati siano moralmente giustificati a muovere guerra. In questo senso, gli interventi armati non sono sempre, ma solo in alcuni casi specifici, moralmente giusti e quindi legittimi. L’idea è che tali guerre non siano giustificate in termini meramente prudenziali, o per il coraggio, ma perché richieste dalla giustizia in quanto intese come usi eticamente appropriati della violenza politica.

Il massimo esempio di guerra giusta è solitamente considerato l’intervento degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale. Questa prospettiva, quindi, pone una serie di vincoli all’azione militare che, se rispettati, permettono di verificare se una tale azione può veramente essere considerata giusta. I criteri riguardano lo ius ad bellum, ovvero le ragioni per ricorrere all’azione militare; lo ius in belllo, ovvero le regole per i comportamenti degli eserciti nel corso dell’azione; e lo ius post bellum, ovvero le modalità in cui la guerra viene terminata e gli accordi di pace stipulati.

Poiché per ora l’intervento in Siria non è ancora avvenuto, la valutazione che si può fare della sua giustizia riguarda solo lo ius ad bellum. Le ragioni di Obama sono giuste?

a. La prima condizione da soddisfare perché una guerra sia giusta, riguarda la giusta causa: la regola più importante è che l’azione militare sia mossa da un motivo giusto. Solitamente quando si parla di giusta causa si ha in mente l’autodifesa da parte di un attacco esterno e la difesa altrui per proteggere innocenti da regimi autoritari, brutali e aggressivi. In generale, si può dire che la giusta causa è fermare aggressioni e violazioni di diritti. Nel caso siriano, la retorica che ha accompagnato la causa a favore dell’intervento finora e le motivazioni che il segretario di Stato Kerry ha dato hanno a che fare con la necessità di punire Bashar Al Assad per aver utilizzato armi chimiche contro i civili. Il problema è che usare la forza per punire sembra in contraddizione con la teoria della guerra giusta e con il diritto internazionale perché punire non significa necessariamente difendere. E, infatti, quella delle armi chimiche si è presto tramutata in una prova che la stabilità e la pace sono in pericolo, come ha fatto presente la Nato in un comunicato recente. Come detto prima, però, motivi prudenziali possono sì dare origini a interventi, ma non di natura militare.

b. Una seconda condizione dello ius ad bellum riguarda la clausola di cosiddetto last resort: la guerra viene portata avanti solo in ultima istanza, solo dopo che si sono tentate tutte le alternative pacifiche e diplomatiche per risolvere il conflitto. Nel caso della Siria, nonostante sia chiara la difficoltà di dialogare con il governo di Assad, ci sono ancora molti dubbi sul fatto che la diplomazia abbia fatto davvero tutto il possibile per cercare un compromesso. Da questo punto di vista la ministra Emma Bonino è stata molto chiara quando ha sottolineato la necessità di ampliare e rafforzare l’azione diplomatica, come del resto auspicato anche dal segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon.

c. Lo ius ad bellum prevede inoltre che una guerra sia legittima e giustificabile dal punto di vista morale solo se ha una ragionevole probabilità di successo: uno stato non può ricorrere alla guerra se non è in grado di prevedere l’impatto che avrà sulla situazione. Questo forse è il punto più problematico di tutta la questione siriana. Ammettiamo pure che l'azione abbia successo: ma successo in cosa? Il vero problema di questo attacco è che gli obiettivi non sono affatto chiari. Certo, punire Assad è un motivo, ma per fare questo basterebbe spiccare un mandato di cattura internazionale. La verità è che non si riesce a capire quali siano i veri moventi dell’attacco, se ce ne sono. Uccidere Assad come Gheddafi? Aiutare i ribelli? Quali? Prendere posizione nella guerra civile tra sciiti e sunniti? Portare la pace in tutto il precario Medio Oriente? E se questo è il caso, come esattamente? Finché non verranno esplicitati in modo chiaro gli obiettivi che muoverebbero l’attacco, questo non potrà essere considerato giusto. Non è certo un caso che per la Siria non si parli mai di intervento umanitario, come è stato invece per il Rwanda nel 1994, il Kosovo nel 1999 e il Darfur nel 2004. Per riprendere la vicenda del Kosovo, in quella situazione Clinton aveva detto fin dall’inizio che la sua intenzione era fermare il genocidio dei kosovari albanesi e assicurare la pace in Europa, le cui forze diplomatiche erano tutte d’accordo e pronte a intervenire nei trattati di pace. Infatti, il presidente Clinton decise di intervenire solo dopo che l’accordo di pace, scritto insieme a rappresentanti europei e russi, fu firmato solo dai kosovari albanesi e non da Milosevic. Solo allora, Clinton inviò le truppe della Nato con la speranza concreta di assicurare un futuro democratico in quella zona dei Balcani. In Siria, al contrario, le cose non sembrano affatto stare nello stesso modo. Da questo punto di vista, inoltre, è importante sapere che un altro criterio fondamentale dello ius ad bellum richiede la proporzionalità, ovvero una guerra è legittima solo quando i suoi benefici sono proporzionali ai costi.

Purtroppo, mancando degli obiettivi chiari in Siria, sembra che anche un semplice ragionamento costi-benefici sia impossibile da formulare. Quali saranno i benefici che si potranno trarre dalla punizione di Assad e quali costi comporterà sono domande a cui non solo non è possibile dare una risposta, ma che non si possono nemmeno impostare a causa della confusione generale rispetto agli obiettivi dell’intervento.

3. La teoria della guerra giusta fornisce strumenti per valutare da un punto di vista normativo le azioni militari che gli stati intraprendono o possono intraprendere. Sul caso della Siria la teoria della guerra giusta sembra non poter fornire una stampella morale a Obama. Questo non significa certo che Assad non debba essere considerato un dittatore le cui azioni sono moralmente ripugnanti, o che il comportamento silenzioso e attendista di tutti i paesi dell’Occidente negli ultimi due anni nei confronti della repressione durissima di Assad non sia esecrabile. La verità è che negli ultimi due anni non si è fatto nulla per fermare una situazione esplosiva e abominevole, che ha generato un numero di vittime impressionante. Bisogna, però, essere cauti nel pensare che questa mancanza possa essere colmata con un intervento militare. Finché una risposta chiara alla domanda “quali sono gli obiettivi?” non verrà data, un intervento militare in Siria rimarrà difficilmente comprensibile e, di conseguenza, moralmente inaccettabile.