La posizione presa dall'Italia sulla crisi siriana riflette l'orientamento di un governo dalle larghe intese poco incline a prendere posizioni radicali o difficili da mantenere nel tempo. Come in molti altri campi ha deciso di non decidere, ma non è detto che nel caso in questione si tratti di una cosa del tutto sbagliata.

1. Durante l'ultima crisi siriana, Stati Uniti hanno assunto una posizione netta. Ma poi si sono ritratti. Il presidente Obama si è detto disposto a intraprendere un intervento armato ma il Congresso ha poi mandato segnali piuttosto ambigui, dando luogo a una strategia del temporeggiamento. Dall'impasse si è usciti per caso, quando la Federazione russa ha dichiarato di voler aiutare gli Stati Uniti a ottenere che l'arsenale chimico siriano venisse distrutto.

Nel contesto, la posizione dell’Italia è stata, come al solito, oscillante. Il presidente del Consiglio Letta ha più volte condannato a parole il regime autocratico di Assad, specialmente dopo gli attacchi chimici nella zona di Ghouta. Il ministro degli esteri Emma Bonino si è detta contraria all’intervento militare, mentre il ministro della Difesa Mauro ha optato per un atteggiamento tiepido, cercando di far pesare il meno possibile il suo «attivismo cristiano», che lo ha condotto, in passato, a schierarsi nella maniera più esplicita con popoli e fazioni oppresse, specie nel mondo arabo. Letta ha poi dichiarato di essere a favore di un intervento militare statunitense, a patto che esso avvenga con l’approvazione delle Nazioni Unite.

Inutile sottolineare che risulta abbastanza difficile, nella situazione attuale, che ciò possa avvenire con facilità, nonostante dati, rilevati proprio dall’ONU, puntino alla responsabilità di Assad in riferimento alla questione dell’utilizzo di gas sarin a Ghouta. Tutto questo, in un contesto europeo che vede su fronti diversi la Francia (a fianco degli Stati Uniti), una Gran Bretagna moderata e una Germania in totale opposizione, sempre più incline a schierarsi con la Russia, quasi alla ricerca di una sorta di Ostpolitik «postmoderna».

2. Nell’ormai lontano 2003, l’intellettuale neoconservatore Robert Kagan affermava che in Occidente si era aperta una crepa tra Europa e Stati Uniti: l’una, infatti, si crogiolava nel «paradiso postmoderno» della pace e del benessere economico, mentre gli altri, avendo coscienza del proprio ruolo preminente nel quadro della politica globale e del conseguente «potere» che da esso scaturiva, erano ancora disposti al sacrificio di se e alla proiezione della forza. Oggi, con la crisi dell’economia a livello mondiale, un’Europa più povera e frammentata al suo interno e un’America ormai lontana dall’impegno in campo aperto successivo agli attacchi dell’11 settembre, il discorso di Kagan sembra aver perso di significato. Tuttavia, ciò che, macroscopicamente, possiamo ancora rilevare è la differenza tra la capacità di indignazione presente negli Stati Uniti nei confronti delle nefandezze operate da regimi autocratici e un’indifferenza tutta europea, pure, in questo caso, con l’eccezione della Francia.

Messa in soldoni, se da una parte ci si interroga sul possibile da farsi, perché non si può rimanere «con le mani in mano», dall’altra, l’atteggiamento prevalente è quello di pensare «non è affar nostro».

All’interno di questo secondo blocco, si segnala un’Italia frammentata, che vede i rappresentanti del governo delle larghe intese non intendersi. Anche dunque sulla questione siriana, l’Italia sembra vittima della balcanizzazione ideologica e partitica, senza peraltro che le singole posizioni appaiano meditate sulla base di argomentazioni serie e convincenti.

La presa di posizione di Emma Bonino, per quanto, come vedremo, comprensibile, pareva motivata dall’augurio di vedere una soluzione «politica» al conflitto in corso. Posto, innanzitutto, che anche l’intervento militare si collocherebbe tra gli esiti di natura politica, perché ad una simile contingenza le soluzioni possono solo essere politiche, l’attestazione del ministro degli Esteri sembra piuttosto il risultato di un wishful thinking scollegato dal dato reale. Parrebbe forse meno ipocrita, quando in Europa si prendono simili posizioni, dichiarare, come fece qualche anno fa lo studioso Edward Luttwak, che in questi casi è meglio «dare una possibilità alla guerra» in corso (dove il gioco sta nel ribaltamento del ritornello di John Lennon, che risulterebbe così to give war a chance), senza intervenire in alcun modo. Meglio per gli equilibri e meglio per noi, che, in questo modo, non saremmo costretti né a sentirci, per l’ennesima volta, bersagliati come guerrafondai da giornalisti, filosofi e intellettuali, né, peggio, a dover rischiare di mandare a casa qualcuno in una body bag.

Preoccupazioni vicine alla concretezza della dimensione politica sono tuttavia arrivate dal ministro Mauro, che si è però limitato a dare una descrizione per sommi capi dello scenario stratificato che emerge dalla guerra siriana: si possono infatti esprimere le perplessità in modo ben più articolato, anziché limitarsi alla rassegnazione di fronte alla complessità degli eventi. Mauro nota, giustamente, che «allargare questo scontro sempre di più, aggiungere altri protagonisti agli Hezbollah, ai jihadisti ceceni, iracheni, yemeniti che in Siria combattono da una parte o dall’altra, è un gioco pericolosissimo». E su questo ci sono pochi dubbi.

Ma quali sono i rischi in concreto? Quali i pericoli per la Siria, per il Medio Oriente e per lo scenario globale? Questo, né Mauro, né Emma Bonino ce lo dicono: si limitano a prese di posizione. I rischi ci sono e la questione è di vitale importanza, in primo luogo, per la Siria stessa: non esiste, infatti, come emerge implicitamente dalle parole del ministro Mauro, un coordinamento tra le forze che si oppongono al regime, nondimeno, il dilemma non risiede, solo, nelle numerose etnie e orientamenti religiosi di coloro che prendono parte alle ostilità, o nel fatto che gli sciiti di Hezbollah appoggino Assad con la compiacenza dell’Iran. Il problema è che molte di queste fazioni fanno riferimento a movimenti fondamentalisti: il gruppo Al-Nusra ad esempio, è uno dei tanti che ha deciso di «targarsi» Al-Qaeda. L’azzardo, è chiaro, è quello di consegnare il paese a un governo integralista, o peggio, a una guerra «per bande» che rischierebbe di durare decenni: questo lo hanno detto in pochi e, per di più, nessun politico italiano si è davvero mostrato tormentato da questi potenziali aspetti. Qualcosa è trapelato dalle dichiarazioni del giornalista Domenico Quirico, sequestrato e poi rilasciato da una delle tante brigate ostili ad Assad, il quale ha parlato di «rivoluzione tradita».

3. La questione non è di «guerra giusta», di obiettivi da porsi, o di smantellamento «pacifico» di arsenali chimici. La questione è sapere se ci si vuole impegnare in una vera guerra e nella pianificazione di un dopo, avendo chiari sia il paesaggio storico e politico in cui si andrà ad operare, sia quale tipo di transizione si renda effettivamente possibile. In un teatro come quello siriano, droni e attacchi stand-off non porterebbero a nulla; sarebbe necessaria una guerra e, soprattutto, un dopoguerra. Si hanno la voglia e le risorse? Forse si potrebbe concludere, un po’ cinicamente, col solito Luttwak, che le grandi potenze preferiscono ormai stare at home with the kids.

Troppe volte ormai, le guerre postmoderne, col loro distacco dal campo di battaglia e il totale disinteresse per la dimensione politica concreta, hanno portato al caos e agli stati falliti, a cominciare dalla Somalia. Troppe volte i metodi asettici dei maghetti della guerra tecnologica, la ragione procedurale dei cognitivisti strategici e i «calcoli» dell’etica analitica hanno fatto disastri, a cominciare dal Vietnam, costando vite umane. Ciò di cui c’era bisogno era la conoscenza della sfera politica, della cultura e del paesaggio religioso. Ora ce le abbiamo ed è ovvio che alla Siria e alla sua gente si dovrebbe ben altro che qualche missile intelligente su obbiettivi cari a un despota. Il problema è se ci sia davvero l’intenzione e se ci possa essere l’impegno necessario, da parte di chi si è indignato.

Recentemente, il generale italiano Fabio Mini ha contestato il potenziale intervento militare in Siria da parte degli Stati Uniti, senza oggettivamente addurre nessuna ragione precisa, in nome di un’etica fumosa e di una oscura soluzione «politica e diplomatica». Egli ha fatto peraltro appello ad una utopica «prevenzione», che consista «nel favorire le condizioni sociali ed economiche per lo sviluppo armonico di tutti i popoli, la fine di ogni sfruttamento e la salvaguardia della loro dignità». Bisogna segnalare che, spesso, le dichiarazioni simboliche e programmatiche sono le maschere dietro le quali si celano malafede e rassegnazione, oppure, la generica panacea contro supposti piani complottardi (e i recenti interessi del generale per fantomatiche guerre ambientali e scie chimiche lo dimostrerebbero).

Non ci si deve nascondere dietro la scusa che le soluzioni non ci sono e che sarebbe meglio non commettere ingerenze destabilizzanti. Un rimedio può esserci e bisogna avere, sia il coraggio di chiamarlo col suo nome, sia farsi carico di ciò che davvero potrà implicare. Il dilemma è se gli indignati vorranno davvero assumersene i costi.

Certo, il dubbio non potrà essere sciolto se l’atteggiamento che continuerà a permanere tra gli attori internazionali resterà quello del temporeggiamento, delle mezze verità e dell’auspicio di soluzioni utopiche. L’Onu e l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, che con esso collabora, hanno riportato notizie confortanti riguardo alla registrazione e allo smantellamento di alcuni ordigni. Anche l’Italia ha contribuito sul piano logistico, fornendo un C-130. Resta tuttavia preoccupante la condizione politica della Siria, che oggi è a tutti gli effetti un non-stato, con l’ulteriore rischio che si riproponga al suo interno una situazione simile a quella della guerra civile libanese, o peggio, che si verifichi una serie di contingenze destrutturanti, che potrebbero condurre ad un esito di «fallimento» per qualunque forma statuale che cerchi di costituirsi.

Negli anni della presidenza Clinton, quando le prescrizioni strategiche imponevano per la prima volta un controllo il più possibile capillare di aree (anche periferiche) turbolente e potenzialmente destabilizzanti, si coniò, accanto a termini come stati canaglia o stati-arma, anche quello di states of concern. Quest’ultima locuzione nacque negli ultimi mesi della presidenza, per attenuare le altre diciture, diplomaticamente meno accettabili; nondimeno, esso si attaglia alla perfezione al caso siriano: esso preoccupa, inquieta e dovrebbe interessarci. Gli ultimi sbarchi a Lampedusa, oltretutto, hanno visto la presenza di numerosi profughi siriani, col risultato, a questo punto, che è proprio l’Europa ad avere il dovere di non voltarsi dall’altra parte.

Da un lato, la soluzione diplomatica, dovrebbe vedere tutti i potenziali partecipanti più solleciti; dall’altro, quella militare, se si volesse pensare di adottarla, richiederebbe soggetti internazionali meno ipocriti.

Il problema, come ha sottolineato lo studioso di filosofia Simone Regazzoni nel suo libro Stato di legittima difesa, è che le democrazie liberali hanno smesso da tempo di pensare la guerra. Non abbiamo la pretesa che la si pensi nel modo immediatamente giusto e strumentalmente dirimente, ma l’esperienza e la realtà delle formazioni politiche contemporanee dovrebbero aiutarci a riformularne una immagine precisa e, soprattutto, a poterne contemplare, in determinati casi, la pur remota possibilità nell’orizzonte politico degli eventi.