Quindi è fatta: anche l’Iran avrà il suo nucleare. O forse no. Dobbiamo immaginarci che, da qui a qualche anno, il regime di Teheran sarà la quarta potenza asiatica (esclusa la Corea del Nord) e la seconda in Medio oriente (dopo Israele) a possedere un arsenale strategico? Difficile. Molto difficile.

1. Gli accordi raggiunti a Ginevra, a fine novembre, tra l’Iran e il gruppo 5+1 (i membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’Onu, con l’aggiunta della Germania) hanno suscitato entusiasmi e allarmismi insieme. Entrambi gli atteggiamenti meritano un ridimensionamento però. A Ginevra si è stabilito che, da qui ai prossimi sei mesi, l’Iran non procederà all’arricchimento di uranio oltre il 5%, mentre la comunità internazionale provvederà allo svincolo di 4,2 miliardi di dollari depositati da Teheran presso alcune banche straniere e sottoposti a sanzione. Nient’altro. Ginevra si è fermata a questo.

L'accordo è un’ode al Gattopardo, quindi. Perché tutti possono vantarsi di aver vinto. In realtà il gol partita non l’ha fatto davvero nessuno.

Dal punto di vista temporale, sei mesi non sono nulla. A maggio il mondo potrebbe trovarsi di fronte allo stesso problema che l’ha afflitto per tanti anni e che, grazie agli impegni presi a Ginevra, è stato solo procrastinato. Il limite del 5% per l’arricchimento dell’uranio conta poco. L’Iran può avere già in deposito materiale fissile centrifugato a percentuali superiori (per la produzione di un ordigno nucleare l’uranio dev’essere arricchito al 20%). Inoltre in questi cinque mesi può accumularne altro, sia per ragioni civili, sia per scopi militari. In quest’ultimo caso l’arricchimento potrebbe avvenire una volta scaduti i termini di Ginevra. Per ovviare a questi rischi, ci saranno gli ispettori dell’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica), mandati a Teheran per controllare che gli Ayatollah non facciano scherzi. Ma sull’affidabilità dell’Aiea non tutti sono pronti a scommettere.

Nel frattempo il 5+1 ha promesso di non imporre altre sanzioni al regime e ha svincolato alcuni conti correnti in banche straniere ai quali l’Iran non ha più potuto accedere dopo l’embargo. L’intenzione è di dare un po’ di ossigeno all’economia nazionale, in particolare ai settori del petrolio, dei metalli preziosi e dell’industria manifatturiera. Buona volontà a parte, si tratta di una goccia nel mare. L’Iran potrà tornare a vendere il suo greggio – cosa che, sottobanco, non ha mai smesso di fare, specie con cinesi e indiani – ma per soli sei mesi. Poi si vedrà. Peraltro, tenendo conto che l’embargo affonda le radici negli anni Ottanta, per riprendersi all’economia iraniana servirebbero ben oltre quei 4 miliardi di dollari.

2. Perché essere entusiasti degli accordi di Ginevra se queste sono le premesse? Vista così la situazione, si dovrebbe dar ragione agli allarmisti, i quali accusano gli Stati Uniti di aver commesso una scelleratezza. Da Israele, ma anche dalle ali dei falchi statunitensi si stanno levando critiche e polemiche contro Obama che avrebbe dato ai mullah il fiammifero con cui accendere le loro micce atomiche. Da notare che i falchi non sempre sono soltanto repubblicani. A Washington il fronte anti-Iran è trasversale. Ma è anche da ricordare che lungo il Potomac la voce degli estremismi appare oggi più flebile rispetto al passato. Gli Stati Uniti, in generale, paiono meno attenti che in passato alle questioni mediorientali e ai costanti venti di guerra che si levano da quel quadrante del mondo.

La Casa Bianca, può quindi vantarsi di aver mantenuto la promessa di risolvere il dossier Iran senza sparare un colpo. È la prima volta che gli Usa affrontano un problema mediorientale senza mobilitare il Pentagono.

Obama, del resto, ha bisogno di chiudere una serie di file. Magari anche frettolosamente e che, per coincidenza, sono tutti concentrati in quell’area islamica. Il grande gioco degli Usa si sta spostando più a est. Verso la Cina. Un tempo Washington mandava, o cercava di mandare “la cavalleria” per fare piazza pulita dei cattivi. I marines però, così come non sono andati in Siria, probabilmente non si bagneranno gli scarponi nemmeno nel Golfo. Questo perché la Casa Bianca sta lasciando andare alla deriva il Medio Oriente con i suoi problemi irrisolvibili. Dal dialogo israelo-palestinese, alle primavere arabe, passando anche per l’Iran. «Fate come volete», sembra dire Obama alle sue controparti locali. «Fate come volete purché non scocciate per un po’». 

Su questa linea non tutti sono d’accordo. Sauditi e francesi per primi. Se gli Usa non si occupano del Medio Oriente c’è il rischio che, prima o poi, il Medio Oriente torni a occuparsi degli Usa. 

Detto questo, Ginevra segna comunque un punto di svolta. L’Iran, con il suo petrolio, esce dalle secche dell’isolamento internazionale. E questo fa comodo per calmierare i prezzi dell’oro nero, cresciuti a dismisura negli ultimi anni. I cinesi saranno i primi a beneficiarne. Ma il greggio iraniano è anche utile per contenere le ambizioni geopolitiche degli arabi dirimpettai sul Golfo: desiderosi di un proprio arsenale nucleare e da sempre avidi di proventi petroliferi.

Sul fronte diplomatico significa avere una Teheran più propensa al dialogo e non arroccata su posizioni di estremismo ideologico-religioso e bellicismi. Ecco, forse la svolta sta nell’auspicio di una revisione dei ruoli in ambito internazionale. Fin dal 1979 infatti, dall’avvento dei mullah, l’Iran ha recitato la parte del cattivo. La funzione ha raggiunto il suo zenit durante l’Amministrazione Bush. L’Iran era il cardine principale del cosiddetto “Asse del male”. E non era solo colpa dei neo-con a Washington che Teheran fosse costretta a giocare in quella posizione. Il tandem Khamenei-Ahmadinejad non ha certo facilitato le cose. Oggi la presidenza Rouhani ha fatto cambiare passo al Paese.

Sfoderando una disinvoltura che è propria solo dell’arte politica bizantina, il nuovo Capo dello Stato ha archiviato la retorica provocatoria del predecessore. Basta con la negazione dell’Olocausto e via un lento confronto con Washington. Che poi lento non è stato, visto che Rouhani e Obama si sono sentiti al telefono a settembre. Vale a dire solo tre mesi dopo la vittoria elettorale del primo.

3. Le debolezze dell’accordo di Ginevra, tuttavia, restano difficili da nascondere. Sei mesi passano velocemente. E basta una scintilla perché il castello di carta salti. In questo senso, le potenziali provocazioni sono più pericolose sul fronte iraniano. In Usa, Europa e Israele ciò che può gonfiarsi è la polemica. Ma esclusivamente verbale. Gli alleati di Teheran, al contrario, sono noti per agire anche in maniera pratica. Chi ci assicura che Hezbollah non decida di lanciare il suo guanto di sfida? E se tornasse alla pratica degli attentati terroristici contro Israele, come potrebbe reagire l’Iran? Schierandosi al suo fianco, oppure abbandonando il Partito di Dio al suo destino? Il nucleo del problema infatti è che, mentre a Teheran con Rouhani, si desidera tornare a far geopolitica secondo i canoni tradizionali – diplomazia e confronto – in molte altre parti del Medio Oriente la regola è data dall’irrazionalità. L’instabilità congenita in Iraq e in Libano, la guerra in Siria e in maniera più ampia le primavere arabe – senza escludere lo scontro secolare tra sunniti e sciiti – non permettono un evolversi ortodosso della politica internazionale. La pratica dei congressi, dei trattati, che non esclude frizioni e crisi, per l’Occidente è sinonimo di normalità. Nel mondo arabo-islamico, al contrario, o meglio nel Medio Oriente allargato, è più probabile che una tensione diventi la miccia di un conflitto, piuttosto che essere risolta a tavolino. Sulle sponde del Mediterraneo orientale, in tutta la Mezzaluna fertile, fino ad arrivare al cuore dell’Asia, nazioni, popoli e tribù hanno invertito l’adagio di Clausewitz: «La politica non è che la continuazione della guerra con altri mezzi», dicono loro.

L’Iran di Rouhani probabilmente vuole dissociarsi da questa forma arcaica di risoluzione dei problemi. Ed è per questo che ha accettato Ginevra. Ci permettiamo di dubitare che Pasdaran, Hezbollah e altri gruppi politico-militari che ruotano intorno ai mullah condividano la soddisfazione che regna a Teheran.

D’altra parte, fidarsi è bene ma cautelarsi è meglio. Ed è altrettanto plausibile che Washington, Mosca e le altre cancellerie del 5+1 abbiano preteso da Rouhani un impegno non divulgato alla stampa. E cioè sulla Siria. Il macellaio di Damasco, il presidente Bashar el-Assad, prima o poi dovrà fare i conti con il destino. E quanto potrà fidarsi di una Teheran che dialoga con il Grande Satana?