«Un tributo per evitare la carneficina», così il presidente francese, François Hollande, ha motivato la morte dei due militari facenti parte del contingente di 1.600 uomini, dispiegato da Parigi nella Repubblica Centroafricana, all’inizio di dicembre. Non è questa la sede per approfondire il “dossier Bagui”. Ma quando si parla della tormentata Repubblica Centrafricana, anche le fonti d'informazione più sensibili alle questioni di politica estera, BBC per prima, sono costrette a partire dalle origini. Del Paese si sa poco. Per questo è necessario essere didascalici. Può darsi che per alcuni ambienti della sicurezza e della diplomazia francesi la Repubblica Centroafricana rivesta una imprescindibile rilevanza strategica. Ma anche il profano capisce che l’intervento francese rappresenta l’ultimo passaggio temporale di un crescente protagonismo internazionale da parte dell’Eliseo, e questo va spiegato.

1. Complessivamente sono 8.450 i militari francesi dislocati in 13 teatri operativi. In paragone, le forze armate italiane, attive in 21 operazioni, sono presenti con 5.564 uomini. Il contingente di 1.600 unità – una robusta brigata, per intenderci – inviato nella Repubblica Centrafricana conferma la Francia in vetta ai Paesi dell’Europa continentale nelle operazioni militari internazionali. Peraltro, i dati forniti dalla Défence non tengono conto delle missioni recentemente concluse (Libia) e di quelle che Parigi avrebbe voluto aprire (Siria).

Non va poi dimenticato l’impegno diplomatico, parallelo a quello militare, e che anch’esso appare ispirato da una non nuova visione di grandeur francese. L’esempio più recente è quello degli accordi di Ginevra con l’Iran. All’interno del 5+1 (membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania), la Francia ha espresso le maggiori riserve sull’opportunità di dare a Teheran quello che poi le è stato concesso.

In tutti questi casi, Parigi si è mossa seguendo una strategia che potremmo definire individualmente tradizionalista. Sulla Libia, Sarkozy aveva preso l’iniziativa di attacco quasi singolarmente. Se non fosse che poi la Nato, previo un perplesso ok dell’Onu, si era dovuta mettere in linea. Altrettanto palese si è rivelato il bellicismo dell’Eliseo per quanto riguarda la Siria. Salvo che poi contro Damasco non si è fatto nulla. Stessa cosa con gli iraniani. La sola voce fuori dal coro che si è udita durante il summit di Ginevra è stata quella del ministro degli esteri francese, Laurent Fabius. Al punto che alcuni giornali hanno avanzato l’ipotesi che il Quai d’Orsay si stesse mettendo platealmente di traverso all’accordo.

Gli esempi mostrano quanto Parigi sia individualista, quasi egoista nelle sue scelte di politica estera. D’altra parte, non è una novità che la Francia cerchi sempre di fare “di testa sua”. È una tradizione che risale a de Gaulle. A quando cioè, perso l’impero coloniale, Parigi non riusciva a smaltirne le velleità. All’insegna della continuità quindi, prima la Francia di Sarkozy ora quella di Hollande non ha fatto altro che tentare di recuperare un proprio giardino di influenza geopolitica nel quale giocare a fare la grande potenza. Come da tradizione. E individualmente. Il rischio però è egoismo e individualismo siano l’anticamera della solitudine e dell’isolamento.

E peggio ancora della frammentazione. Le piaccia o no, Parigi è integrata in due importanti alleanze internazionali: Nato e Unione europea. La sua libertà di azione si scontra con quel pacta servanda sunt che è alla base degli accordi fra Stati.

Nei decenni la strategia di Parigi ha funzionato relativamente. A) Perché i francesi si sono concentrati puntualmente sul quadrante africano, dove oggi sono operativi 6.348 suoi soldati. B) Perché gli Stati Uniti hanno lasciato fare. Del resto, l’Africa è sempre apparsa poco appetibile agli occhi di Washington: lontana, povera, ma soprattutto priva di quei gruppi di pressione che, invece, hanno orientato la politica estera statunitense verso altre criticità. La comunità ebraica, per esempio, ha permesso che Israele fosse una priorità costante per la Casa Bianca. Lo stesso dicasi per le comunità immigrate dall’Europa orientale, dalla Cina e, ovviamente, dall’Italia.

Ora le cose sembra che stiano cambiando in maniera ulteriormente favorevole per questa nuova force de frappe. Oltre all’Africa, il presenzialismo presidenzialista dell’Eliseo si vorrebbe adagiare anche in alcuni Paesi mediorientali. E non è escluso che, di nuovo, gli Usa glielo permettano.

Sarkozy aveva fatto di tutto per intervenire in Libia a supporto delle forze ribelli contro Gheddafi. E in questo c’era riuscito. Oggi non si può dire che il risultato lo abbia premiato. L’operazione Nato Unified protector ha fatto saltare il coperchio a un vaso di pandora contenente i bacilli dell’instabilità, della frammentazione tribale e del fanatismo confessionale.

Ed era ancora l’ex presidente francese che premeva affinché si realizzasse una missione fotocopia in Siria contro Assad. Al momento della successione, nel maggio 2012, Hollande ha raccolto il testimone e l’ha fatto suo, premendo così – ancora nel settembre di quest’anno – affinché il regime di Damasco venisse attaccato da un contingente multinazionale. Il piano non è stato messo in pratica. Finora. Scontentando così tutto l’Eliseo. L’ultimo smacco la Francia l’ha ricevuto a Ginevra.

2. Il problema è che Parigi sembra aver scelto una linea poco spendibile presso le cancellerie dei suoi alleati. Perché da un lato pare essersi presa a cuore la causa della Primavera araba. Dall’altro, è noto che ribelli e rivoluzionari abbiano abbandonato gli slogan inneggianti a libertà e democrazia, per abbracciare quelli del fondamentalismo confessionale. A Washington e a Londra se ne sono accorti. Per questo la guerra civile in Siria può andare avanti sine die senza che né marines né tommies vengano coinvolti. Possibile che Parigi non abbia di queste remore?

Per osservare la luna però, bisogna guardare oltre il dito che la indica. I francesi non stanno promuovendo la causa salafita, o peggio di al-Qaeda. Bensì vogliono approfittare dello spazio vuoto che gli Usa stanno lasciando in Medio Oriente. E questo se non è un ok esplicito, è comunque un placet sottinteso. Silenzio assenso insomma. Di conseguenza, si stanno allineando con i Paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in particolare: sunniti, loro sì vicini al radicalismo salafita.

Con le indecisioni sull’attacco contro la Siria e poi le aperture a Teheran, Obama ha confermato un disinteresse crescente nel gestire quei dossier del mondo arabo-islamico che, a suo giudizio, sono irrisolvibili. Questo a dispetto delle promesse elargite negli anni a israeliani e mondo islamico di chiudere i contenziosi che hanno segnato la storia del Medio Oriente. Ecco, pare che la Casa Bianca si voglia allontanare proprio da questo Medio Oriente. Un po’ per ragioni economiche. Il previsto ritorno all’autonomia energetica dell’industria americana è un ovvio disincentivo dal prestare attenzione agli emiri. Ma soprattutto perché Cina e sud-Est asiatico costituiscono i veri mercati del business made in Usa. Washington è stanca di spendere in guerre e conflitti. Se proprio dev’esserci un confronto al vertice, che si svolga con un antagonista degno della stazza statunitense. Superpower versus superpower.

3. George W.  Bush, nel suo anno iniziale da presidente, prima dell’11 settembre, aveva sottolineato come la nuova frontiera americana fosse da rintracciare in Estremo Oriente. Anziché essere dimenticata, la crisi con Pechino dell’aprile 2001, dovuta alla presenza di un aereo spia Usa nei cieli di giurisdizione cinese, avrebbe dovuto far riflettere sulle ripercussioni di lungo periodo.

Quindi? Quindi largo alla Francia in Medio Oriente. Con calma ma insistenza, è palese che Parigi voglia tornare in un mondo dal quale era stata cacciata previo rimprovero – crisi di Suez nel 1956 – e pure con le bastonate (guerra d’Algeria, 1954-1962). Probabilmente ai potentati locali non interessa questo passaggio di consegne. A loro importa che qualcuno continui ad acquistare petrolio e fare affari sulle opulente coste del Golfo.

Nei rapporti transatlantici la questione è diversa. Tutto rientra nei nuovi scenari della Nato. Perché se prima gli Usa dicevano: «Facciamo noi», oggi seguono la linea del fate vobis. Parigi ne approfitta. In realtà, anziché il suo opportunismo – la tradizione individualista di cui sopra – dovrebbe essere l’Europa a replicare. Con una politica di difesa comunitaria e integrata. Ma questa è un’altra storia.