Nel periodo festivo appena trascorso, la vicenda di Caterina Simonsen ha suscitato un notevole clamore. Il 21 dicembre una sconosciuta ragazza di Padova, studentessa di veterinaria, posta su un famoso social network un video in cui ringrazia la ricerca scientifica e la sperimentazione animale per averle permesso di raggiungere il 25º anno di età. Caterina Simonsen è affetta da quattro malattie rare che non le permettono di vivere una vita normale e alle quali sta sopravvivendo grazie a cure mediche testate, in origine, sugli animali.

1. La sperimentazione animale a fini scientifici ha radici lontane nella storia occidentale. Il primo a istituire un parallelismo implicante una somiglianza tra il corpo animale e quello umano fu Aristotele, il quale aprì, in questo modo, la strada per una pratica effettiva di ricerca sugli animali al fine di comprendere meglio le funzioni fisiologiche del nostro corpo. Ad Aristotele seguirono nomi illustri che hanno contribuito a porre le basi della scienza moderna così come si presenta a noi oggi, tra di essi Galeno, Berengario (sostenitore della dissezione umana e animale), Vesalio, Harvey fino a giungere a René Descartes che con la sua concezione meccanicista del corpo animale contribuì a placare le remore della coscienza etica nell’uso sperimentale degli esseri viventi. Con la conquista della ragione come misura di tutte le cose, la scienza, ormai avviata verso il metodo sperimentale, iniziò a usare in modo sistematico gli animali nei propri laboratori, basti pensare a Pasteur, Pavlov e in tempi più recenti ai premi Nobel per la medicina Rita Levi-Montalcini, con le sue ricerche embrionali sulle galline, e Capecchi, Evans e Smithies che, invece, con le loro tecniche di gene targeting sperimentate sugli animali, hanno contribuito in modo significativo alla ricerca sul cancro. Insomma, molti dei medicinali che oggi vengono dati per scontati e usati anche come cure generiche quotidiane alla portata di tutti sono stati, in origine, testati sugli animali.

Naturalmente il dibattito sulla liceità di tali trattamenti e usi risale anch’esso ai tempi più antichi, basti pensare al pitagorismo e alla sua etica vegetariana, e sebbene sostenitori dei diritti degli animali durante i secoli non siano mancati è solo con il finire del XIX secolo e l’inizio del XX che la questione dei diritti animali e del loro uso in ambito scientifico inizia a superare i confini accademici e i circoli intellettuali per diventare di dominio pubblico. Oggi, per esempio, gli stimoli elettrici usati da Pavlov sui cani per studiare gli stati d’indecisione e di schizofrenia non sarebbero più accettabili né a livello legislativo né a livello pubblico.

A questo punto, tuttavia, è doveroso fare alcune precisazioni. Esiste una differenza marcata, ben poco sottolineata, tranne rare eccezioni, negli articoli apparsi in queste settimane sui giornali italiani, tra vivisezione e sperimentazione animale. Il termine vivisezione viene generalmente usato con un’accezione del tutto negativa da coloro che si oppongono a qualsiasi tipo di sperimentazione animale e implica che gli animali in questione subiscano ogni tipo di tortura che possa causare loro dolore; inoltre, tale termine ha un forte impatto emotivo sull’opinione pubblica proprio a causa degli impliciti linguistici ed emozionali che esso presenta.

Quando però si parla di sperimentazione animale a fini scientifici le cose sono ben diverse da ciò che l’impatto emotivo del termine vivisezione ci suggerisce in un primo momento; infatti, se la vivisezione, e quindi qualunque pratica che possa causare dolore a ogni essere vivente animale, in Italia è vietata già da diversi anni, la sperimentazione animale è regolamentata da direttive europee ben precise, in alcuni casi accolte dai paesi della Comunità in modo ancor più restrittivo di quanto la direttiva originale richieda - come avviene, per esempio, con l’Italia - che vietano in modo totale che si possa infliggere dolore agli animali.

In questo senso la Direttiva 2010/63/EU del Parlamento Europeo è più che chiara. La direttiva si basa, inoltre, sulla regola delle 3R elaborata negli anni ’50 da W.M.S. Russell e R.L. Burch, in cui le 3R indicano Replacement, Reduction e Refinement, ovvero: sostituzione con metodi alternativi, ove possibile, riduzione del numero di animali nei laboratori e miglioramento delle condizioni degli animali stessi. Se prendiamo il testo originale, nelle considerazioni iniziali ai punti 10, 11 e 12, possiamo leggere: “(10) Benché sia auspicabile sostituire nelle procedure l’uso di animali vivi con altri metodi che non ne prevedano l’uso, l’impiego di animali vivi continua ad essere necessario per tutelare la salute umana e animale e l’ambiente. Tuttavia, la presente direttiva rappresenta un passo importante verso il conseguimento dell’obiettivo finale della completa sostituzione delle procedure su animali vivi a fini scientifici ed educativi non appena ciò sia scientificamente possibile. A tal fine, essa cerca di agevolare e di promuovere lo sviluppo di approcci alternativi. Essa cerca altresì di garantire un elevato livello di protezione degli animali il cui impiego nelle procedure continua ad essere necessario. La presente direttiva dovrebbe essere rivista periodicamente alla luce dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche e delle misure di protezione degli animali. (11) La cura e l’uso di animali vivi a fini scientifici sono disciplinati dai principi, sanciti a livello internazionale, della sostituzione, della riduzione e del perfezionamento. (12) Gli animali hanno un valore intrinseco che deve essere rispettato”. La legge n. 96/ 2013 approvata in Italia lo scorso agosto impone inoltre che sia sempre utilizzata l’anestesia e che siano vietati totalmente xenotrapianti, la sperimentazione di sostanze stupefacenti e l’allevamento di cani, gatti e primati destinati agli esperimenti. La comunità scientifica italiana ha denunciato i margini troppo stretti entro cui la legislazione ha confinato la sperimentazione animale, margini così stretti che rischiano di bloccare la ricerca stessa; ciò, tuttavia, sembra aver avuto meno risalto di quanto ne ebbe nel 2012 la vicenda di Green Hill, un allevamento di cani beagle chiuso su pressione di associazioni animaliste.

2. Quanto detto apre a due problemi distinti e allo stesso tempo collegati tra loro. Il primo problema riguarda propriamente l’uso degli animali in laboratorio e le alternative che sino a oggi sono state introdotte ma che, nonostante ciò, non permettono ancora di eliminarne l’uso. Nella ricerca farmaceutica esiste una lunga procedura stabilita a livello internazionale per cui l’azione delle molecole del nuovo farmaco devono essere testate prima con una simulazione al computer, in secondo luogo attraverso la coltura di cellule, poi, obbligatoriamente, sugli animali e, infine, se il farmaco non risulta dannoso, sull’uomo. L’uso degli animali non è di certo giustificato dal sadismo degli scienziati, ma dalla necessità della ricerca scientifica di seguire un metodo sperimentale che tolga ogni dubbio sui possibili effetti collaterali e negativi che un farmaco, nato in principio per salvare vite umane, ma non solo – non si deve dimenticare che gli stessi farmaci spesso servono a salvare anche i nostri animali domestici – non sia dannoso per l’uomo.

Per ora, non ci sono alternative plausibili e la storia dei premi Nobel per la medicina dell’ultimo secolo lo dimostra ampiamente. Provocatoriamente si potrebbero immaginare due scenari, altamente distopici benché realistici e, in parte, anche reali, se ipotizzassimo l’eliminazione della sperimentazione animale. Il primo è sicuramente il meno verosimile, in quanto andrebbe a eliminare una delle poche certezze che abbiamo dell’essere umano: la tendenza a superare sempre i confini, i limiti apparentemente posti dalla natura, cercando soluzioni a problemi formalmente senza uscita, ovvero significherebbe eliminare la ricerca stessa lasciando così libero corso a malattie come la sclerosi multipla o i tumori. Il secondo è già in parte in atto perché presenta costi economicamente minori rispetto alla sperimentazione animale, sebbene eticamente orribili: la sperimentazione diretta sull’uomo. Un’inchiesta del 2010 su The Indipendent ha messo in luce come questo scenario non sia poi così distopico; in India, infatti, la legislazione sulla sperimentazione umana è molto flessibile, ciò ha permesso che numerosi pazienti – secondo l’inchiesta circa 2000 persone – fossero usati come cavie, senza che ne fossero a conoscenza.

Naturalmente anche questa vicenda sembra essere passata inosservata presso l’opinione pubblica, ciò mi porta al secondo problema a cui accennavo poco sopra. Il confronto tra lo scarso interesse dimostrato nei confronti di una vicenda scandalosa come quella denunciata da The Independent se posto in relazione con il grande riscontro di pubblico che, invece, le vicende di Grenn Hill Caterina Simonsen hanno suscitato, porta a domandarsi se il valore universale della vita, principio a cui coloro che contestano la sperimentazione animale si appellano, non abbia un po’ meno valore quando applicato ai nostri simili.

Ci scandalizziamo per esempio degli animali uccisi dalle grandi aziende della moda per ricavarne  pellicce, ma non facciamo una piega quando ci viene detto in che condizioni quegli stessi capi vengano cuciti. Fin dove possiamo attribuire diritti agli animali prima che questi stessi diritti ci si ritorcano contro? È lecito contestare la morte degli animali in laboratorio quando quelle morti porteranno alla salvezza di centinaia di vite umane?

Il diritto alla vita dell’uomo e la ricerca per salvarla, a mio parere, devono essere posti al di sopra di ogni diritto attribuibile agli animali. È sicuramente un punto di vista antropocentrico, ma d’altra parte, da che punto di vista potremmo guardarlo?

Persino se cercassimo di immedesimarci nell’animale a noi più vicino non smetteremmo di usare le nostre categorie per cercare di immaginare le sue sensazioni. Allo stesso modo si potrebbe sostenere che questo è un punto di vista prettamente specista e, laddove con specismo s’intendesse definire un atteggiamento prettamente favorevole alla propria specie, sicuramente non si potrebbe negare che tali righe lo siano, allo stesso tempo ciò non vuol dire che vengano giustificati i soprusi o la sofferenza di altre specie. L’uomo ha sempre usato gli animali per garantire la propria sopravvivenza; l’uso dell’animale diventa un problema solo nel caso in cui venga inflitto un dolore inutile. A tal proposito va notato come in Europa sia vietato, giustamente, l’uso di animali per testare prodotti cosmetici. Inoltre, per paradosso, tendiamo ad attribuire maggiori diritti agli animali che più ci assomigliano o che vivono quotidianamente a contatto con noi. Proviamo sicuramente più empatia per uno scimpanzé o per un cane, ma cosa succede con una zanzara, una formica o uno scarafaggio? Dovremmo denunciare un genocidio ogni volta che una città porta avanti una derattizzazione?

3. In filosofia è stato sostenuto, soprattutto da Edmund Husserl, che l’identità di un individuo è data dal riconoscimento interindividuale tra membri di una comunità; riconoscimento fondato su un rapporto empatico che permette di riconoscere se stessi attraverso la presenza dell’altro. Tale riconoscimento farebbe da collante per la comunità e permetterebbe non solo la formazione della propria identità, ma anche il riconoscimento dell’appartenenza al genere umano e di conseguenza la convivenza tra individui. Cosa succede se questa empatia è rivolta in modo totalizzante, come sembra il caso degli animalisti ad oltranza, agli animali e non a esseri della nostra stessa specie? Rischiamo di cadere in una posizione estrema di cui uno Stato non può tenere conto se vuole salvaguardare la salute dei propri cittadini. La questione è stata sintetizzata in modo esemplare da una frase di Felice Cimatti in un’intervista apparsa sulle pagine del “corriere della Sera” lo scorso 29 dicembre: “inutile preoccuparsi per un pollo in batteria se poi non si prova empatia per una giovane che deve vivere attaccata a una macchina”.

Le cose stanno in modo completamente diverso per quanto riguarda invece il consumo alimentare di carne. La metà dei cereali prodotti a livello mondiale servono a sfamare gli animali che poi vengono serviti sulle nostre tavole, lasciando, inoltre, nella fame quasi un miliardo di persone. Senza tenere conto del danno ecologico che deriva da un allevamento così massiccio di animali. La scelta del vegetarianismo, oltre a essere una scelta etica nei confronti degli animali stessi, è anche una scelta ecologica, ma essa è pur sempre una scelta, presuppone la libertà da parte dell’individuo di poter decidere cosa reputi meglio per se stesso e per l’ambiente che lo circonda. Una volta consapevoli del fatto che un farmaco è stato testato sugli animali sta a noi decidere se prenderlo o meno, questa è una delle poche possibilità che abbiamo poiché la ricerca scientifica, per ora, non ha alternative. Come ha recentemente dichiarato Umberto Veronesi: “accettando la sperimentazione sugli animali nei casi in cui è ancora indispensabile, accettiamo ciò che non è un bene in sé, ma un tributo che paghiamo all’etica, in vista di un vantaggio per un maggior numero di esseri viventi”.