A partire dalla metà degli anni Dieci si è fatta strada in America una teoria manageriale fondata sull’intuizione. Invece di prendere spunto dalle ricerche di mercato o dall’innovazione tecnologica, designer e consulenti come Tim Brown e Roger Martin hanno posto il processo intuitivo al centro del loro discorso teorico sull’innovazione.

Questa nuova teoria manageriale spiega meglio delle precedenti le dinamiche che portano all’improvvisa apparizione di prodotti e servizi che cambiano le regole del gioco. Noi italiani faremmo bene a prestare orecchio a questa scuola di pensiero. Essa ci mostra, al contempo, quello che funziona e quello che non funziona nel nostro paese.

1. Gli imprenditori italiani che fanno innovazione sanno bene che a muoverli è poco più che una vaga intuizione. La scala ridotta delle piccole e medie imprese che costituiscono l’ossatura del nostro sistema imprenditoriale favorisce una leadership intuitiva e dirigista. In genere aziende a conduzione familiare, queste imprese furono quasi tutte fondate da un antenato visionario mosso dalla sola passione per il prodotto. Spesso incolto, l’antenato si era “fatto da solo”, vincendo resistenze contestuali spesso impressionanti. Solo l’intuizione sognata e un carattere volitivo potevano ottenere i risultati che si sono avuti in certi distretti produttivi italiani.

Gli eredi di questi fondatori visionari non hanno bisogno delle più recenti teorie manageriali per sapere che non bastano ricerche di mercato e studi di settore per lanciare con successo un prodotto sul mercato. A loro basta guardare indietro, talvolta anche di una sola generazione. Se nel proprio passato gli Stati Uniti hanno un Thomas Edison o un Henry Ford, l’Italia ha Adriano Olivetti e Enzo Ferrari. L’innovazione in questo paese non è mancata, anzi. Nel secondo dopoguerra siamo stati uno dei più innovativi fra i paesi industrializzati.

Il problema è che oggi gli Stati Uniti hanno Apple e Google, e l’Italia no. Che cosa è successo? Che cosa ha interrotto la catena virtuosa che avrebbe potuto fare dell’Italia uno dei paesi più innovativi al mondo? Basta dire che siamo deboli in elettronica e che non abbiamo quindi afferrato l’occasione digitale?

2. Non esiste una sola causa alla situazione in cui versa attualmente il Paese. La situazione è talmente attorcigliata che le tensioni paiono multiple e mutevoli: il Paese è fermo, lo dicono tutti gli indicatori economici, e lo è da almeno dieci anni.

Tornando all’innovazione, potremmo dire che non è del tutto scomparsa in Italia. Ha solo cambiato aspetto e settore. L’industria oggi più innovativa è quella all’apparenza più statica, quella agroalimentare e vitivinicola. Gli italiani non hanno mai mangiato meglio nella loro storia, ma si raccontano che i prodotti che portano in tavola sono quelli della tradizione, dimenticando che l’unica vera tradizione italiana nel campo nutrizionale è la fame. In molte regioni italiane, e fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, si moriva di fame. Come ad esempio nel Veneto, dove fino a qualche tempo fa si parlava di “fame vecia” per giustificare un certo entusiasmo irrefrenabile esibito al desinare. Era la fame di secoli che si sfogava.

Il motivo per cui l’innovazione agroalimentare e vitivinicola non appaiono per quello che sono - oggetti recenti - è semplice quanto efficace. Visto che il valore principale nell’alimentazione è la salubrità del cibo somministrato, a che serve ricordare ad ogni piè sospinto che se oggi si beve buon vino in Italia è merito dello scandalo dell’etanolo degli anni Settanta? Certo, il Brunello di Montalcino e il Barolo erano già quei monumenti all’ingegno umano che sono, ma tutto intorno si beveva  risciacquatura. Oggi non c’è quasi modo di bere vino cattivo a meno di non volersi fare del male. Lo stesso vale per gli altri cibi. Se un ingrediente o una pietanza rispondono pienamente ad una tradizione secolare, non possono essere il prodotto di una adulterazione.

Volendo generalizzare, si potrebbe dire che se oggi in Italia si parla poco di innovazione è perché il nostro settore di gran lunga più innovativo trae vantaggi competitivi dal fingersi riluttante ed anzi refrattario ad ogni innovazione.

Forse la ragione per cui oggi Olivetti e Ferrari non trovano eredi diretti è perché il paese ha preso una svolta, abbandonando l’industria leggera, che era il suo vanto, per dedicarsi a settori altrettanto appassionanti, ma che non amano dichiararsi innovativi. Chi ha inventato la bufala è un innovatore di genio tale e quale a Steve Jobs. Ma al contrario di Jobs, questo signore ama godersi l’anonimato che deriva dall’aver inventato ieri un cibo della tradizione. La lingua questo l’ha capito. Non a caso oggi per dire che una cosa non è quello che dice di essere si dice che è una bufala.

3. La domanda sull’innovazione in Italia si riduce a questo: possono i soli settori agroalimentari e vitivinicoli portare il paese verso un futuro migliore? In una economia perfettamente globalizzata, la risposta potrebbe per certi versi essere affermativa. Basta dividersi i ruoli. La California progetta, la Cina realizza e l’Italia imbottiglia. Ma se questa fosse davvero la strada intrapresa - e l’uscita di scena di Fiat parrebbe suggerire che si sta andando in quella direzione - si presenta un problema sociale. Se le civiltà agricole sono sempre conservatrici, che dire delle società dove l’innovazione si mette la maschera e si presenta come rispetto della tradizione? Non è per caso questo dato economico strutturale a spiegare - marxianamente - il diffondersi di un nuovo tratto nazionale, l’ironia di massa?

Se oggi il paese ha un problema è il “sorriso ironico” andreottiano che con il tempo si è trasformato in un micro-machiavellismo volgare il cui motto è “il fine giustifica i mezzi e i mezzucci.” Questa forma povera del pensiero impedisce a ognuno di dichiarare apertamente i propri scopi e di perseguirli alla luce del sole, seguendo le regole del gioco. A ben vedere parrebbe trattarsi del risvolto sovrastrutturale della bufala materiale. Di recente il sindaco di Venezia ha patteggiato una pena legata a un atto di corruzione, e questo per ritornare a ricoprire il ruolo di sindaco il giorno dopo. A chi gli chiedeva se il patteggiamento non fosse una ammissione di colpevolezza, e quindi un qualcosa che esigesse dimissioni immediate, l’esimio principe forense ricordava che il patteggiamento non è che una mera forma di conciliazione. Solo un soprassalto di dignità dei componenti della Giunta comunale ha potuto mettere fine alla vicenda degna della peggior commedia dell’arte.

4.L’innovazione mascherata da tradizione ancestrale può aiutarci a vendere più bufale, ma può avere risvolti estremi perché l’innovazione economica e quella intellettuale sono legate. Volendo rovesciare la prospettiva marxiana appena presa, potremmo più propriamente ritenere che ciò che ha portato alla cultura della bufala non viene dal basso, ma dall’alto. Non dall’economia, ma dalla sfera intellettuale, ossia dal micro-machiavellismo volgare che caratterizza il discorso politico italiano dal fallimento di Mani pulite in poi. È qui che un ritorno all’intuizione di una nuova forma industriale potrebbe aiutare il paese a uscire da un momento di crisi che non pare contingente, ma strutturale. Il risultato che potremmo ottenere in questo modo è l’uscita dall'immobilismo in cui ci troviamo, quasi fossimo una cultura agricola volta alla mera sussistenza. Se ciò non dovesse accadere in tempi brevi, potremmo rischiare di trasformare il paese in un enorme caseificio a cielo aperto dove alle bufale materiali si accompagnano le belle parole di chi per vendere il proprio prodotto direbbe qualsiasi cosa, anche che gli asini volano. Come ci insegna la migliore tradizione con denominazione di origine controllata.