Lennesima guerra di Gaza, ora sospesa da una nuova tregua, ha riportato al centro dellattenzione il conflitto in Medio Oriente, che lopinione pubblica occidentale ritiene comunemente imputabile alla irrisolta questione palestinese. Eppure, proprio la vicenda della striscia di Gaza, con il ritiro unilaterale degli israeliani nel 2005 e la successiva ascesa al potere di Hamas, è lì a dimostrare che lo scontro in corso da 66 anni non è determinato dallassenza di uno Stato palestinese, bensì dalla presenza - cioè dallesistenza stessa - dello Stato di Israele.

Mai nessun altro Stato, nella storia contemporanea, è stato oggetto di un tale pregiudizio di illegittimità, così ossessivamente e così a lungo. Neppure il più tribale, casuale e arbitrario fra gli Stati arabi post-coloniali e post-ottomani ha mai visto in discussione il suo diritto a esistere, né si è mai sentito minacciato di cancellazione dalla carta geografica. Mentre gli ebrei israeliani sono impegnati a battersi, con tutta la durezza necessaria, in questa lotta per la sopravvivenza, gli ebrei della diaspora – segnatamente gli esponenti della cultura progressista e di sinistra - si incaricano di “ripensare il sionismo”, giungendo a conclusioni spesso assai diverse.

Israele: Terra, Ritorno, Anarchia di Donatella Di Cesare (105 pagine, Bollati Boringhieri), Sinistra e Israele: La frontiera morale dellOccidente di Fabio Nicolucci (280 pagine, Salerno) e La mia terra promessa di Ari Shavit (460 pagine, Sperling & Kupfer) sono solo tre dei libri che più di recente affrontano, da un punto di vista ebraico, la questione della identità e della legittimità di Israele.

1. Di Cesare scrive un saggio teologico-politico: il “Ritorno” nell’ebraismo è una promessa, non un progetto, ergo esso non può esaurirsi nella costruzione di uno Stato nazionale. “La Terra del Libro non può essere simile a nessun’altra”, occorre perciò pensare a “nuove forme di sovranità”, per una terra che è “soglia della Trascendenza”. Quali forme? “Il pensiero anarchico è attuale e suggestivo” è la risposta convinta (ma poco convincente) dell’autrice, che si richiama al filone dell’utopismo ebraico di Gustav Landauer, Gershom Scholem, Martin Buber e altri.

Di Cesare tesse l’elogio della “estraneità” ebraica, espressione di una “identità che si apre all’alterità dell’altro” e che “non può essere allineata alla storia di altri popoli che si sono proclamati autoctoni”. L’autrice rifiuta la tesi del sionismo come Risorgimento ebraico. Se gli ebrei costituissero uno Stato nazionale come gli altri, ciò rinvierebbe a una storia “ordinaria”, in un’opera di “normalizzazione” comune a tutte le nazioni del mondo. A questa “aspirazione piccolo-borghese alla norma”, Di Cesare contrappone la necessità di inventare una nuova politica: “non è forse questo il compito del sionismo?” si chiede retoricamente la docente di filosofia teoretica, che aggiunge: “Lo Stato degli ebrei non è, e non può essere, uno Stato come gli altri”. Le tesi di Abraham Yehoshua nel suo “Elogio della normalità” vanno dunque respinte senza appello, perché “il popolo ebraico non ha fatto ritorno per ottenere un’indipendenza senza contenuto”. Esso “abita la Terra in modo diverso dal normale abitare di altri popoli”, “risiede come uno straniero, un ospite che sa di essere ospite”.

Persino Donatella Di Cesare deve aver notato che, in questi slanci teologico-politici, ci deve essere qualcosa che non quadra, se si sente in dovere di precisare, a pagina 38, che le sue tesi potrebbero sembrare “un irritante passatempo per anime belle”. In effetti, è anche l’impressione dell’estensore di queste note.

L’autrice rilancia il valore dell’utopia, caro fra gli altri alla Scuola di Francoforte, fino a scrivere che “questa esigenza, ontologica prima ancora che politica, dell’utopia del domani fa sperare nel domani dell’utopia”; e naturalmente si scaglia contro il pensiero liberale, colpevole di “decretare il trionfo della concretezza”. Di conseguenza, la docente elogia Marx e la sua previsione di estinzione dello Stato, intesa come “salto messianico”. Non stupisce quindi che, nelle conclusioni, il libro si abbandoni al pacifismo più ingenuo, dove la pace non è intesa come “rifiuto temporaneo della guerra” tipico del pensiero kantiano. La guerra costituisce il “limite del pensiero filosofico occidentale”, ammonisce Donatella Di Cesare, mentre la pace correttamente intesa non è l’opposto della guerra, bensì del Male. Solo la “pace anarchica” potrà dunque essere la “futura pace di Gerusalemme”.

2. Di ben altra concretezza e consistenza il libro di Fabio Nicolucci. Dopo aver ricostruito gli episodi salienti della storia di Israele, l’autore sottolinea la difficoltà storica della sinistra europea (in particolare italiana) di “pensare se stessa dentro il pensiero occidentale”, principalmente a causa della critica originaria all’economia capitalista. Anche la visione del terrorismo come fenomeno generato dalle “colpe” dell’Occidente, è una tesi da respingere senza equivoci. “Israele è l’Occidente dell’Occidente” scrive Nicolucci, negare l’identità comune significa negare noi stessi, mentre la pretesa equidistanza fra le parti in causa si risolve in una sostanziale indifferenza o in un moralismo impotente.

La tesi centrale e più originale del libro riguarda la nascita, l’affermazione e il declino del pensiero neo-conservatore. Secondo l’autore, questo processo ha una lunga incubazione, per circa due decenni prima dell’attentato alle Torri Gemelle. Esso ha origine nelle opere di Bernard Lewis sull’Islam, nella tesi dello “scontro di civiltà” e in vari altri pensatori “occidentalisti”, ampiamente citati. Questa corrente di pensiero, sostiene Nicolucci, trova però il suo referente politico – assai più e prima che in George W. Bush – nel leader israeliano Bibi Netaniahu. Questi, dopo il trauma psicologico causato dalla morte del fratello Yoni (eroicamente caduto nel raid di Entebbe) fonda in Israele e poi rilancia negli Stati Uniti la sua teoria dell’ “antiterrorismo morale”, che penetra in alcuni circoli politici e think tank d’oltre oceano. La lotta politica all’interno di Israele è dunque, in questa interpretazione, parte di un complesso progetto egemonico, per vincere la battaglia più generale sul destino della civiltà occidentale: “Avendo Israele una particolare funzione di sorgente della cultura politica occidentale, esso diventa parte di una complessa e articolata battaglia neo-conservatrice per conquistare la guida della nostra comune civiltà”. Dopo l’11 settembre, questa ideologia si impone e conquista l’opinione pubblica, grazie anche alla prosa esaltata ed enfatica di Oriana Fallaci, che la diffonde in una vulgata nazional-popolare. Sarà l’esito disastroso della guerra in Iraq a indurre la politica americana a un più sobrio realismo, con la vittoria di Barak Obama.

Nelle conclusioni, Nicolucci torna a criticare “la particolare debolezza della cultura politica internazionale della sinistra italiana ed europea”. Dopo il crollo del comunismo, “la raffigurazione di Israele come forza imperialista continua ad avere una funzione consolatoria”. L’ostilità verso Israele rimane l’unico pezzo di fedeltà al passato che non sia mai stato rivisto o sottoposto a critica. Assistiamo a una sorta di “reificazione del concetto di resistenza”, tale per cui qualunque cosa o persona si opponga agli Stati Uniti, viene percepita come elemento positivo o progressivo. Anche l’Islam politico, in questo senso, viene apprezzato come ultimo baluardo antiamericano, in una significativa convergenza fra il pensiero di estrema destra (Tarchi, Buttafuoco, Adinolfi) ed estrema sinistra (uno per tutti, segnaliamo noi, Alberto Asor Rosa).

3. Anche Ari Shavit si incarica di raccontare “la storia e le contraddizioni di un paese in guerra per la sopravvivenza”. Concepisce una bella ed emozionante “operazione nostalgia”, con un viaggio nella Palestina storica che ripercorre fisicamente, ai giorni nostri, le tappe di un cammino che fu esplorato, in ben altre condizioni, dal bisnonno pioniere nel 1897 e poi dal nonno e dal padre, fondatori dello Stato. Due panorami a confronto, quello dei racconti passati e della cronaca odierna, in un libro ricco di storia e di storie, poetico e commovente. Uscito in America, è presto diventato un best seller del New York Times. Nelle conclusioni, dopo aver tentato di distribuire generosamente torti e ragioni, Shavit invita lo Stato di Israele a una “missione erculea”: dovrà porsi come “un’isola di progresso; dovrà essere moralmente solido, progressista, unito, creativo e forte”.

In questo ampio e apprezzabile sforzo culturale della intelligenza ebraica, in questo tentativo continuo di risalita alle origini del sionismo, in questa disperata ricerca volta a scandagliare le cause e le soluzioni possibili di un conflitto infinito, spicca un decisivo elemento di sottovalutazione. Il fondamentalismo islamico esiste, non è un prodotto di quelle “astrazioni ideologiche e astratti furori, tipicamente frutto di nevrosi” che Fabio Nicolucci imputa alla personalità egocentrica di Oriana Fallaci. Eppure nessuno dei tre autori tratta anche solo in misura sufficiente questo argomento. L’Islam politico radicale e violento, con il suo rifiuto della convivenza e il suo insopprimibile istinto di morte, rappresenta un pericolo mortale per Israele, ben al di là della “questione palestinese”. E’ accettabile che si trascuri questa minaccia? Ma soprattutto: è giusto che chi vive in Europa o negli Stati Uniti incarichi un abitante di Sderot di dare vita a “un’isola di progresso nel mondo”? E’ lecito che gli chieda di rappresentare “la frontiera morale dell’Occidente”? Non sarebbe invece doveroso rivendicare, per chi vive in quella città, il diritto a un’esistenza “normale” come tutte le altre, di quella normalità auspicata da Yehoshua e altezzosamente sdegnata dalla cattedra di un’università italiana? Ecco alcune domande che, dopo la lettura di questi libri, attendono ancora una risposta.