Ha ricevuto una certa attenzione, questa estate, una dichiarazione del Papa secondo cui oggi, nel mondo, si starebbe combattendo la terza guerra mondiale, anche se a spizzichi e bocconi, ossia “a pezzetti”.  Il Papa non ha elaborato oltre, ma per un breve momento, l’immagine di una guerra mondiale ’a puntate’ ha ottenuto una certa eco sulla stampa. La verità è che in questo momento sembrerebbe esserci un certo bisogno di principi euristici. Non a tutti riesce facile orientarsi in un mondo che pare sprofondare ogni giorno di più nel caos.

1. È dalla caduta del muro di Berlino che si sente parlare della geopolitica del disordine globale, la geopolitica del caos.  “Sept ans après la chute du mur de Berlin, six ans après la fin de la guerre du Golfe,” scriveva Ignacio Ramonet su le Monde Diplomatique nel 1997, “le nouvel ordre international annoncé s’est mué en chaos.” Alla caduta del muro di Berlino il mondo sarebbe precipitato nel disordine più totale. La tesi divenne famosa quando Ramonet pubblicò Géopolitique du caos da Gallimard nel 1999. Questo modo di vedere le cose si opponeva direttamente alla narrazione (a un certo punto assai diffusa) che Francis Fukuyama espose in un famoso saggio pubblicato nel 1989, “The End of History and the Last Man”. Non la rivoluzione del soggetto collettivo proletario, ma la vittoria delle democrazie liberali sul comunismo realizzato avrebbe condotto l’umanità alle porte del migliore dei mondi possibili portando a compimento un processo dialettico millenario.

Negli anni le due narrazioni di fine secolo si sono scontrate - fra di loro, ma soprattutto con i fatti. Pochi oggi userebbero i toni trionfalistici impiegati da Fukuyama alla caduta del Muro di Berlino; ma allo stesso tempo, dire che alla fine della guerra fredda il mondo è precipitato nel caos è quantomeno sopravvalutare la capacità ordinatrice di quel conflitto. Solo chi era rimasto orfano delle categorie con cui era cresciuto poteva pensare che la fine del mondo bipolare avrebbe portato al disordine planetario. Basta guardare con il senno di poi i focolai di disordine elencati da Ramonet per comprendere la natura strumentale della ’geopolitica del caos’: i Balcani, il Caucaso, l’Africa dei Grandi Laghi, il Messico, l’Irlanda del Nord e l’Afghanistan. Lasciando da parte per un istante l’Afghanistan (è difficile trovare un momento della sua storia recente in cui il paese non fosse nel caos), tutti i focolai indicati sono luoghi residui del furore ideologico della Guerra Fredda e comunque, con il tempo, sono stati risolti o contenuti, nel bene o nel male.

Eppure oggi assistiamo ad un ritorno della geopolitica del caos come modello esplicativo. Nel commentare la riluttanza del presidente Obama ad intervenire sullo scacchiere internazionale, David Rothkopf ha fatto una dichiarazione al Financial Times che ricorda la mappa tracciata da Ramonet. “There has been an awakening to the level of chaos in the world - Ukraine, Syria, Iraq, Gaza, and so on - all of which were not only unsettling but visible. The result was the president was reluctantly goaded into action. But even in taking action, his reluctance was palpable.”

Anche Thomas L. Friedman ha fatto ricorso allo stesso concetto in una serie di editoriali di fuoco sul New York Times, “Order vs. Disorder (in tre parti). “America is the tent pole holding up the whole world of order.” Ma al momento il vuoto di politica estera dell’amministrazione Obama non consente a nessuno di sentirsi al riparo dagli elementi.

Uno di questi articoli è stato ripreso da La Repubblica con l’eloquente titolo “Se il caos domina il mondo.” (2 settembre, p. 27). Friedman non giunge a tanto, ma l’estro del titolista è comunque il segno che nell’orizzonte riconosciuto di un certo lettore “di sinistra” cresce la percezione che il mondo sia piombato nel caos.

2. In questo contesto, il principio euristico suggerito dal Papa aiuta a capire che cosa stia accadendo. Ciò che percepiamo come un procedere disordinato di eventi bellici è in realtà un unico evento che si dispiega per capitoli. Colto questo si potrà cogliere la cifra che li unisce e quindi spiegarsi lo stato del mondo. Mi permetto però di dubitarne. Innanzitutto il Papa è stato citato dalla stampa con un eccesso di semplificazione giornalistica. Occorre prendere in mano L’Osservatore romano per capire il senso del suo discorso. Quello che ha citato la stampa non è che un inciso, una parentesi in un discorso che per altro è relata refero.

Il Papa, in volo dalla Corea (dove si era recato per una delicata visita pastorale), stava rispondendo alle domande dei giornalisti, quando ha rivolto il pensiero alle crudeltà che paiono caratterizzare i conflitti in corso. Quindi l’inciso: “E oggi noi siamo in un mondo in guerra, dappertutto! Qualcuno mi diceva: «Lei sa, Padre, che siamo nella Terza Guerra Mondiale, ma “a pezzi”?». Ha capito? È un mondo in guerra, dove si compiono queste crudeltà.”

Quando si cercassero le fonti di questa opinione le si troverebbero facilmente on line. Si va dalle più blande opinioni giornalistiche alle più pungenti teorie del complotto. Alla fine si capisce bene che come principio euristico l’idea che si stia combattendo la terza guerra mondiale compie molto lavoro, ma non spiega alcunché.

3. Quello che è da cogliere nel ritorno della geopolitica del caos e nell’avanzare di altre banalizzazioni esplicative è un certo vuoto di discorso. È questo vuoto che viene percepito come caos.

Chi non sta fornendo modelli esplicativi è in primis l’amministrazione americana e il motivo è semplice quanto complesso, purché – ovviamente – si conosca la storia intellettuale di questo paese. La visione americana del mondo è fondato su alcuni principi chiave, il primo dei quali è l’eccezionalismo. Chi critica questo principio, e non ne tiene conto, si priva della capacità di capire e trasforma gli Stati Uniti in un qualsiasi paese europeo. Per quanto vi siano frange intellettuali che non usano questo discorso per pensare al ruolo degli Stati Uniti nel mondo, la maggioranza degli americani sarebbe persa senza di esso. Il discorso eccezionalista è bicefalo. La destra americana ritiene che gli Stati Uniti siano eccezionali rispetto all’Europa, ossia facciano eccezione. Non avendo avuto il medioevo cattolico sono nati moderni; non avendo avuto il feudalesimo a lottizzare la frontiera vergine sono nati senza lotta di classe. Chiunque (bianco) poteva coltivare la terra ed essere libero. La versione di destra dell’eccezionalismo deve mettere fra parentesi la questione razziale, altrimenti il discorso non regge. La versione progressista, al contrario, parte proprio dalla questione della schiavitù dei neri per dire che gli Stati Uniti non sono un paese eccezionale perché perfetto, ma lo sono perché sono nati con il desiderio di essere perfettibili. Obama, nero, è la prova evidente di quanto avanti sia andato il processo, oltre che il segno di quanti progressi occorrerà ancora fare.  

In politica estera l’eccezionalismo di destra porta al tentativo di “liberare” il mondo così da renderlo più simile all’eccezione americana. A sinistra, l’eccezionalismo progressista porta al tentativo di agire nel mondo perché ad ognuno possa essere concessa la chance di essere libero.

Di fatto, però, le due “narratives” sono così simili viste da lontano che l’una può apparire una versione più annacquata dell’altra, e viceversa. In altre parole, non ne viene percepita la profonda differenza: la differenza fra chi crede di essere eccezionale e chi desidera diventarlo. Entrambe parlano di “democrazia”, ma lo fanno in modo radicalmente diverso. Per i primi “esportare la democrazia” significa cancellare nel mondo tutto ciò che non lo è; per i secondi significa incoraggiare ogni nazione a sviluppare dall’interno un proprio modello di democrazia. I primi reputano infatti il loro modello come normativo; i secondi sanno che ogni contesto storico produce una sua strada alla democrazia.

Il vuoto di discorso che porta molti commentatori a frequentare di nuovo la geopolitica del caos è provocato dalla riluttanza del presidente Obama a enunciare i principi dell’eccezionalismo. Non per abiura, ma per un problema molto pratico: al mondo un discorso di questo tipo riporta subito alla mente il discorso neoconservatore che ha portato ai disastri mesopotamici in corso. Ovvero, Obama ha paura di venir frainteso, e quindi dice il meno possibile agendo in modo pragmatico.

Non comprendendo questo, non si capisce Obama. Quando all’acuirsi della crisi siriana Obama dichiarò di non avere ancora una strategia, non intendeva confessare al mondo che al contrario del suo predecessore non aveva banalità da snocciolare alla stampa, buone per ogni occasione. Intendeva dire che ad ogni crisi segue una strategia specifica per reagire a quella crisi. Esattamente il cuore della nuova strategia americana.

Presa la via di mezzo fra realismo e idealismo, il pragmatismo di Obama agisce in profondità senza declamare. Questo irrita chi vorrebbe invece un discorso da criticare o condividere. In entrambi i casi la geopolitica del caos non è la risposta giusta. Mai come in questo momento è chiaro agli Usa quale sia il loro ruolo mondiale. Chi parla di neo-isolazionismo non prende in considerazione la differenza fra il 1941 e l’oggi. Come chiamare isolazionista una nazione che tiene una flotta in ogni mare garantendo la fluidità dei traffici commerciali? Quello che vogliono gli Usa in questo contesto è che ogni potenza regionale si assuma le proprie responsabilità prima di chiamare la potenza americana a togliere loro le castagne dal fuoco. Questo è il “lead from behind” di Obama: ognuno si assuma il suo carico di responsabilità. Se vogliamo chiamare questo approccio “geopolitica del caos” facciamolo. Ma il caos è nella testa di chi non vede l’azione ordinatrice della potenza americana.