Il Grand Old Party ha ripreso dopo otto anni il controllo del senato americano. In linea con le previsioni degli ultimi tre mesi, e con una tradizione quasi centocinquantennale, il sesto anno di presidenza consegna al partito di opposizione la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Obama èpoliticamente ferito, ma le sue preoccupazioni sono giàaltrove, alla ereditàda presidente. La vittoria repubblicana solleva il sipario sui due anni che ci separano dalle prossime elezioni presidenziali: si preannunciano molto lunghi. La sfida inizia domani, anzi, di fatto ègiàcominciata. Ma il voto del 2014 conta davvero qualcosa per lappuntamento del 2016?

1. Uno sguardo alla mappa elettorale restituisce un’America molto più simile a sé stessa di quanto l’ottimismo repubblicano voglia mostrare o i media, specie italiani, raccontino. Il GOP si è di fatto ripreso quegli stati che aveva perso nell’ondata di consenso democratico del 2008, coincisa con l’elezione di Barack Obama: e questo è (quasi) tutto. Il partito dei conservatori ha vinto solo in stati tradizionalmente conservatori, mentre ha mancato di strappare ai democratici, ad esempio, il seggio senatoriale della Virginia (per un soffio, e forse si andrà al riconteggio), o del New Mexico, e va a un ballottaggio risicato in Louisiana, da una posizione di svantaggio. In altre parole, che tipo di segnale politico è per i repubblicani aver vinto in South Dakota, in Montana, o in West Virginia? Le Midterm 2014 non consegnano indizi per intravedere le sorti delle prossime presidenziali - né in un senso né nell’altro - e si limitano a fotografare il ritratto di un’America profondamente insoddisfatta tanto di Obama quanto dei due maggiori partiti. Un’America dove - più che la distinzione tra stati “rossi” e stati “blu” - persistono linee di frattura più antiche: il voto continua, ad esempio, a essere totalmente polarizzato tra città liberal e provincia conservatrice, tra elettorati afroamericani e bianchi, tra wasp e minoranze etniche.

2. A questo si aggiunga che, come spiega Dana Milbank sul Washington Post, ogni repubblicano ha vinto per sé stesso, non intorno a un progetto comune. Non c’è, ad oggi, un’agenda politica del partito di opposizione. Gli undici principi “per un rinnovamento americano” sui quali i candidati della destra si sono accordati si fermano a banalità come “i nostri veterani si sono guadagnati il nostro rispetto” e “il miglior programma antipovertà è una famiglia forte e un buon lavoro”. Il GOP ha eletto nelle due camere una squadra di politici che è tutto da valutare, soprattutto nelle sue ambizioni presidenziali.

Il portavoce del gruppo al Senato sarà Mitch McConnell, un veterano della politica appena riconfermato nel suo seggio in Kentucky, che occupa dal 1985: è evidente che bisogna guardare altrove per cercare possibili sfidanti alle primarie per il 2016. Accanto a Marco Rubio, senatore ispanoamericano della Florida, e a Jeb Bush - di cui il fratello George W. ha detto a inizio ottobre che “vuole essere presidente” - continua a spiccare la possibile ricandidatura di Mitt Romney, oltre a molti ritorni: si parla ancora del governatore della Louisiana Bobby Jindal, di Rick Santorum, persino di Mike Huckabee. In campo democratico, le cose non sono più chiare. Hillary Clinton - che ha chiarito che scioglierà la riserva solo nel 2015 - potrebbe forse fronteggiare la candidatura a sinistra di una progressista estremamente apprezzata dalla base democratica del Nordest come la senatrice Elizabeth Warren (la più applaudita dopo Obama alla convention del 2012). Mentre resta aperta la possibilità di un nuovo tentativo di Howard Dean e c’è persino qualcuno che - sfidando l’anagrafe e non solo - inserisce tra i concorrenti alle primarie il vice di Obama, Joe Biden. Classe 1942.

Quanto a Barack Obama, si aprono ora per lui i due anni strategici in cui impegnarsi a costruire la propria legacy da presidente. Un altro grande classico delle istituzioni americane. L’ultimo biennio serve di solito ai presidenti degli Stati Uniti per consegnare alla Storia le cose che più vividamente si ricordano del loro mandato, e spesso hanno preso una proiezione decisamente internazionale: il Mr Gorbachev, tear down this wall pronunciato da Ronald Reagan nella Berlino Ovest del 1987, ad esempio, o l’avvertimento lanciato nel suo discorso di fine mandato da Ike Eisenhower contro il “complesso militare industriale” americano e la sua potenziale minaccia alla democrazia, o ancora la Società delle Nazioni wilsoniana, e così via. Oppure si può finire nell'ignominia, come accadde a Nixon, e in parte - ed è lo spettro che forse Obama dovrebbe temere di più - a Jimmy Carter, preso nella trappola degli ostaggi iraniani, dell’ascesa di Khomeini, dell'invasione sovietica dell’Afghanistan. Il rafforzamento di un’immagine presidenziale ora decisamente appannata, comunque, non servirebbe solo a Obama per finire nella parte migliore dei libri di storia, ma sarebbe anche un’occasione per rafforzare i democratici, e migliorare le loro chance per il 2016

3. A proposito di storia e memoria. A chi pensa Barack Obama quando scorre i ritratti dei suoi predecessori nei corridoi della Casa Bianca e cerca ispirazione per definire la sua presidenza? A Roosevelt, forse, dice qualcuno; ma più che a Franklin Delano, il pensiero del presidente è andato a Theodore, il repubblicano alla guida della nazione dal 1901 al 1909, al movimento progressista e pragmatista di inizio Novecento, all'America della ragione e della dialettica contro le forze del caos indiscriminato (quelle che, proprio cent’anni fa, spinsero Walter Lippmann a scrivere Drift And Mastery, un’apologia della programmazione e dell’organizzazione scientifica dell’amministrazione). In un discorso di fine 2011, non a caso nella stessa località del Kansas dove Theodore Roosevelt aveva parlato un secolo prima, Obama citò esplicitamente il suo predecessore, in quello che ricorderemo forse come il suo manifesto più ideologico: lotta agli interessi particolari, tasse come uno strumento per difendere la classe media, pari opportunità per tutti.

"In gioco c’è la possibilità che la nostra sia una nazione dove i lavoratori possano guadagnare abbastanza per crescere una famiglia, accumulare dei modesti risparmi, possedere una casa e assicurarsi una pensione”, disse allora Obama. Il tema è chiaro: il progresso non è solo la capacità di un Paese di aumentare il proprio PIL (da quel discorso l'America ha continuato a crescere, a un tasso annuo medio che si è assestato intorno al 2 per cento), ma di ridurre le ineguaglianze, di dare respiro alla classe media, polmone delle democrazie. Una battaglia che in sei anni su otto del suo mandato a Obama non è riuscita nel modo in cui sperava, anche se vi ha profuso molta parte delle proprie energie. Che nessuno resti indietro è una sfida che in fondo dovrebbe interessare anche ai repubblicani, se vogliono vincere in futuro. L’impressione è che middle class sarà ancora, come due anni fa, uno degli slogan al centro della prossima campagna per le presidenziali. Chissà se questo dibattito arriverà a lambire anche le politiche di un'Europa in cui il discorso economico fin qui è stato ossessionato da una sola parola: rigore.