Si diceva che la politica europea è sempre per sua natura conflittuale, mentre quella americana mira a formare un consenso. Oggi par vero il contrario. Mentre in Europa la crisi economica ha raffreddato la litigiosità fra i partiti e le parti sociali, negli Stati Uniti la politica è sempre più polarizzata, sempre più incline al conflitto. Non c'è nulla che Obama faccia che i repubblicani non critichino aspramente. E di converso, se le cose vanno male negli Usa, per i democratici è senz’altro colpa dei repubblicani. Un tempo non era così.

Fino alla presidenza Reagan, una volta finite le elezioni si lavorava in modo collegiale per il bene del Paese. Oggi non c’è cosa che non porti irrimediabilmente a uno scontro. Prendiamo la questione posta dal nuovo terrorismo islamico di stampo totalitario. Se c’è accordo bipartisan su questioni squisitamente militari (e non potrebbe essere altrimenti vista l'importanza assunta dalle forze armate dopo l'11 settembre 2001), tutto il resto è fair game, come si dice. Tutto il resto può essere impallinato. Parlando di Isis, la questione diventa subito quella delle responsabilità. Secondo i repubblicani l'ascesa dello Stato Islamico è dovuto al ritiro delle truppe americane dall’Iraq ordinato dal presidente Obama. Secondo i democratici è colpa del disordine scaturito dall’invasione dell’Iraq voluta dal presidente George W. Bush. I fatti sono gli stessi, ma la loro interpretazione è affatto diversa. È evidente che nel cozzo politico, al netto delle antipatie personali, a scontrarsi sono due visioni del mondo inconciliabili. Vediamo di chiarirne i contorni.

Secondo i repubblicani, l’Isis occupa un vuoto. Il vuoto inopinatamente lasciato aperto dalla potenza americana. Secondo i democratici, l’Isis è un fenomeno nuovo, che deve le sue origini al disordine portato nella regione dall’avventurismo dell’amministrazione di George W. Bush. La visione del mondo repubblicana pone gli Stati Uniti al centro del sistema internazionale. Se non ci sono le truppe americane sul terreno, i terroristi alzano la testa. Seguendo questo ragionamento, il Medio Oriente, come il resto del mondo, ha bisogno della potenza americana per non cadere nel caos. La visione del mondo democratica è più sfumata. Gli Stati Uniti sono uno dei fattori d’equilibrio del sistema, e non il fulcro intorno a cui tutto ruota.

A questo punto potrebbe sembrare che la visione del mondo dei democratici assomigli per molti versi alla visione che gli europei hanno del ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Non è così. Basta ascoltare quanto va dicendo il presidente Obama dal giorno dell'attacco a Parigi. Anche se vi sono delle coincidenze fra le due visioni, quella di Obama è predicata su di una specificità della storia americana. Una specificità di cui lui è l'incarnazione.

All'indomani dell'attacco di Parigi, Obama ha evitato nel modo più assoluto di assumere la posizione in cui l'atto terroristico voleva inchiodarlo. A più riprese ha affermato che gli Stati Uniti non sono in guerra contro l'Islam. Poi ha iniziato a differenziare rigidamente fra “estremisti” islamici e l'Islam in quanto religione. Infine, ha chiesto e ottenuto i poteri di guerra per un periodo limitato di tempo (tre anni), in modo da partecipare ad azioni coordinate con gli alleati d'area per “ridurre” (degrade) la minaccia terroristica. L'architrave di questa strategia è l'idea che gli Stati Uniti sono un paese multi-etnico fondato sulla libertà di culto e sulla rigida separazione tra stato e chiesa. La sua stessa storia insegna che gli “estremisti” possono essere sconfitti con il tempo. Nel paese che ancora nei primi anni cinquanta viveva segregato su linee razziali, oggi governa un nero. Fergusson e altri episodi di razzismo indicano come la strada non si ancora del tutto percorsa. Ma l'enorme differenza con quanto accadeva solo qualche decennio fa permette di ben sperare per il futuro.

La storia americana insegna che nessuno può arrogarsi la qualifica di popolo o religione compiutamente perfetti. Anche i crociati, Obama ha voluto chiarire, compirono atti immondi del tutto simili a quelli commessi oggi dall'Isis. Quello a cui stiamo assistendo non è uno scontro fra civiltà, ma una lotta interna fra le fazioni estremiste di una particolare setta, quella sunnita. Separando i terroristi dalla religione, e sottolineando che con il tempo ogni posizione “estremista” può essere “ridotta”, Obama evita di compiere l’errore fatto ai tempi di Bush figlio, quello che dare ai terroristi ciò che più desiderano: una armata di invasori contro cui scagliare le proprie armi e la propria retorica.

Non è difficile prevedere come queste divergenze fra democratici e repubblicani costituiranno uno dei fondamentali terreni di gioco nelle prossime presidenziali, soprattutto se a scendere in campo sarà Hillary Clinton. In quanto Segretario di Stato all'atto del ritiro americano dall'Iraq, la Clinton è vulnerabile alle stesse critiche mosse oggi a Obama. In più, i repubblicani le hanno già cucito addosso la tragedia di Bengasi in cui è morto un ambasciatore americano: ovvero l'inerzia statunitense nel reagire alla crisi libica.

Nell'usare la storia americana come arma del soft power statunitense Obama non sta dimostrando di non amare il suo Paese, come ingenuamente si è lasciato sfuggire Rudolph Giuliani. Mentre la visione repubblicana del mondo postula che l'eccezionalismo americano dimostra come gli Stati Uniti siano un paese perfettamente democratico, tanto da essere un esempio per tutti, la visione democratica postula che gli Stati Uniti possono essere un esempio in quanto paese perfettibile.

Mostrando al mondo se stessi in quanto risultato di un processo di civilizzazione, e non come l’apice della civiltà, gli Stati Uniti sperano di sfilarsi dalla posizione in cui li vogliono gli estremisti islamici: il grande satana contro cui scagliare la propria impotenza. Gli Stati Uniti non puntano sulla ragionevolezza dei terroristi, di cui allo stato dei fatti non c'è traccia. Puntano sulle nuove generazioni e sulla distanza che essi intendono mettere fra se stessi e il Medio Oriente nel prossimo futuro. Ora che il paese è meno dipendente dal petrolio, gli Stati Uniti intendono lasciare la responsabilità del riequilibrio dell'area agli alleati europei così da potersi dedicare alle problematiche che vanno emergendo nell'area del Pacifico. In quell'area si giocherà la prossima partita per l'egemonia planetaria. E la visione europea del mondo ne dovrà tener conto.