Se si votasse oggi, il Regno Unito non avrebbe alcun governo. La fotografia non esagera il clima di profonda incertezza che alligna intorno allesito delle prossime consultazioni politiche inglesi. Le general elections del 2015 si terranno a maggio, ma da un paio di settimane sono cambiate alcune variabili, forse in modo sostanziale.

Se fino a febbraio il principale partito di opposizione al governo conservatore-liberaldemocratico di David Cameron, il Labour, conservava un discreto margine di maggioranza e di seggi nelle intenzioni di voto, ora i due partiti appaiono perfettamente appaiati, con i conservatori in rimonta, ma entrambi incapaci di raggiungere una qualche forma di maggioranza, e questo al netto del sistema uninominale che ne amplifica la maggioranza parlamentare. Altro che hung parliament (formula che il lessico della politica inglese riserva a quei contesti in cui è necessario un accordo tra più partiti per un governo di coalizione): in modo ben più complesso di quanto accadde nel 2010, ad oggi, secondo i sondaggi, quasi nessuna coalizione garantirebbe la governabilità.

Solo un anno fa, il Labour di Ed Miliband scavalcava il partito di governo di cinque, dieci punti in tutte le rilevazioni. Come si è arrivati a questo? Lo scenario ripropone il tema della spaccatura del bipartitismo inglese, che ha funzionato relativamente bene per gran parte del dopoguerra, garantendo l’alternanza destra-sinistra, ma che è sembrato incrinarsi con la crescita, a partire dagli anni Novanta, dei Liberaldemocratici. I quali hanno funzionato da generico collettore di scontenti dei due partiti, con un tocco di ambientalismo soft, diritti omosessuali e third way, e sono arrivati ad essere determinanti per la formazione del nuovo esecutivo nel 2010. L’arrivo sulla scena, in questi ultimi anni, dell’UK Independence Party ha ulteriormente eccitato i commentatori politici, soprattutto all’indomani delle elezioni europee, nelle quali la destra euroscettica di Nigel Farage aumenta puntualmente i suoi consensi. Ci si scorda, però, che il voto pragmatico britannico fa sì che il voto europeo corra su un binario separato rispetto alle elezioni politiche, dove non a caso lo Ukip potrebbe ottenere, secondo i sondaggi, intorno al 15%,  pochissimi seggi. Gli inglesi, insomma, praticano abbondantemente il voto disgiunto tra Europee e Politiche: è impensabile che il partito di Farage ripeta l'exploit del 25% del 2014.

Proprio rincorrendo il populismo anti-Bruxelles dell’Ukip, David Cameron ha promesso un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea per il 2017, se sarà ancora al governo. Prima figura di rilievo ad avere guidato i conservatori dopo il trentennio thatcheriano, Cameron si è mosso, in questi anni, con pragmatismo, aprendo ad una politica più decisamente liberal nel campo dei diritti rispetto al vecchio partito (legalizzando nel 2013 i matrimoni tra persone dello stesso sesso), ma proseguendo di fatto l’agenda economica della Lady di ferro, con i feroci tagli alla spesa e le privatizzazioni.

Curiosamente, uno dei più cospicui interventi legislativi del suo governo riguarda proprio un tema sul quale l’allora candidato Cameron aveva giurato che non avrebbe messo mano: la riforma del National Health Service. Nel 2012 la maggioranza conservatrice e libdem ha approvato l’Health and Social Care Act, che ha sollevato il ministero della sanità dalla responsabilità per la salute dei pazienti, e ha messo di converso le strutture ospedaliere in una maggiore competizione in tema di efficienza finanziaria. Ma le liste di attesa per vedere un medico non si sono accorciate, e la legge ha aperto per ulteriori miliardi di sterline le gare per i privati, ha denunciato l’anno scorso Youssef El-Gingihy, medico nel sobborgo londinese di Tower Hamlets. Più che un problema di privatizzazioni è che la riforma ha reso la catena decisionale molto più complessa e ha frammentato i servizi, ha ribattuto di recente il King’s Fund, think tank di antica fondazione, da sempre attivo in materia di riforma sanitaria.

Ovunque sia la verità, è chiaro che sull’NHS si sta consumando una battaglia di grande importanza. Formato nel 1948 durante gli anni “rossi” del laburista Clement Attlee e da allora bastione del welfare britannico, sul servizio sanitario universale si è concentrata buona parte della campagna elettorale dei laburisti di Ed Miliband, che hanno promesso di ripudiare la riforma di Cameron, considerata una vera sciagura, e di difendere la sanità dallo spettro della sua privatizzazione. Il taglio delle rette universitarie, il blocco dell’aumento di bollette e tasse sull’energia fino al 2017, l’aumento dei salari minimi, la stigmatizzazione delle troppe “amicizie” tra potenti e magnati della stampa (Murdoch in primis) dell’avversario Cameron: l’agenda politica laburista è tutta qui. Miliband ha scelto di riportare il Labour alle posizioni più seccamente progressiste e pro-welfare della sua originale tradizione, discostandosi (similmente a quanto fatto da Obama rispetto a Clinton) dalla "terza via" neoliberal e centrista degli anni Novanta. Scelta coraggiosa (o audace, a seconda dei punti di vista), ma molto divisiva. E non aiutata dal fatto che Miliband non può certo vantare il carisma del controverso ma straordinario comunicatore Tony Blair. La storia del Labour di oggi comincia nel 2010, quando Ed vince contro il fratello David, più moderato. I due figli del marxista Ralph interpretavano due strade differenti per il partito della socialdemocrazia britannica. Ha vinto quella di sinistra. Miliband otterrà la maggioranza sufficiente a governare? Un esito che fino a qualche mese fa appariva piuttosto scontato ora è messo in dubbio.

In questo quadro, non è impossibile che gli inglesi finiscano per accomodarsi sulla riconferma di una leadership pragmatica come quella di David Cameron e dei conservatori, sorta di "progresso senza avventure", per riprendere un adagio democristiano. O - ancor più probabile - che renda inevitabile un’alleanza tra più forze per consentire un governo. Lo scenario più folle vede alleanze parlamentari tra Labour, nazionalisti scozzesi e liberaldemocratici, oppure l’inclusione della destra di Farage in una coalizione con i conservatori e i libdem - il tutto per raggiungere una maggioranza di pochissimi seggi alla Camera dei Comuni. Ipotesi in grado di far venire il mal di testa a chiunque. Attenderemo due mesi per vedere se il cielo di Londra è destinato a rischiararsi, almeno in parte.

Val la pena notare, a questo punto, come in Spagna e in Grecia i movimenti euroscettici o comunque di rottura dello scenario partitico tradizionale si siano collocati fino ad oggi più o meno a sinistra (Syriza, Podemos), in Italia in un'area difficilmente etichettabile (Movimento Cinque Stelle), mentre in Francia, UK e comunque nel nord Europa sono invece chiaramente a destra (Ukip appunto, Front National, Alternative fur Deutschland, eccetera).