Le lezioni della crisi

Uno dei principali lasciti della recente crisi economica è costituito dal ricordo delle ingenti risorse pubbliche che si sono rese necessarie in diversi paesi (Spagna, Irlanda, Grecia, solo per citarne alcuni) per salvare il sistema finanziario dal collasso. Istituzioni finanziarie considerate più o meno solide si sono rivelate estremamente esposte e fragili a mutazioni del contesto economico ed è stata forte l’impressione che policy makers e autorità non avessero una chiara strategia su come affrontare tale situazioni di stress.

Per prevenire situazioni di crisi e per poterle gestire, laddove dovessero comunque emergere, sono stati predisposti strumenti legislativi complessi, frutto di anni di discussione a livello internazionale. Il fulcro del nuovo sistema di prevenzione delle crisi è costituito, nell’Unione Europea, dalla Bank Recovery and Resolution Directive. La Direttiva, approvata dal Parlamento e dal Consiglio Europeo nel giugno 2014 e attualmente in fase di recepimento in Italia, definisce un set di regole comuni per la gestione delle banche in difficoltà, con l’obiettivo di prevenire le crisi o di ridurne l’impatto sulle finanze pubbliche.

Da un lato si cerca di superare il principio del “too big too fail”, affermando che qualsiasi banca “può” fallire e definendo le strategie per minimizzarne le conseguenze. Dall’altro, anche per entità di dimensioni minori si cerca di definire ex-ante una linea di intervento che possa “guidare” le authority in caso di dissesto. Ricordiamo che la crisi ha coinvolto colossi così come banche di dimensioni minori andate incontro a situazioni di crisi sistemica (vedi le casse di risparmio spagnole).

Gli architravi del nuovo sistema

Il nuovo sistema si poggia su un nuovo assetto istituzionale, su di un processo dedicato e su un insieme di misure per prevenire e gestire le crisi.

Oltre alle autorità di supervisione, sono in corso di costituzione a livello europeo le cosiddette “resolution authorities” nazionali affiancate e coordinate dal Single Resolution Board (già istituito a Bruxelles). Le resolution authorities avranno in mano, come vedremo nel seguito, “il pallino” nella gestione delle crisi. Verranno inoltre costituiti i cosiddetti fondi di risoluzione, che dovranno fornire gli eventuali aiuti finanziari necessari per il salvataggio di banche in crisi e che verranno alimentati con contributi versati direttamente dalle istituzioni finanziarie sulla base della loro dimensione e del loro profilo di rischio.

Le banche dovranno partecipare al cosiddetto Recovery & Resolution Process. Ciascuna banca dovrà preventivamente redigere un recovery plan (piano di risanamento), che dovrà selezionare gli indicatori da monitorare per identificare tempestivamente le situazioni di crisi (“early warning”), contenere indicazioni sulle azioni da intraprendere e sul processo di governance e escalation interni. Fino a quando una banca rimarrà in condizioni “recuperabili”, sarà essa stessa ad attuare tutte le misure per cercare di uscire dall’empasse “con le proprie gambe”.

Se, viceversa, il supervisiore (in Italia, Banca d’Italia e/o Banca Centrale Europea) dovesse considerare un istituto non in grado di superare in autonomia una situazione di stress finanziario, lo dovrà segnalare alla resolution authority, che interverrà attuando le misure previste in appositi resolution plan (piani di risoluzione), preventivamente redatti con l’obiettivo di delineare le strategie ritenute più efficaci per “risolvere” la banca.

Le opzioni a disposizione delle authority

Per risolvere la crisi dell’intermediario finanziario le autorità di risoluzione avranno a disposizione un ampio set di possibili strategie. Potranno vendere, senza l’approvazione degli azionisti, tutto o parte dell’ente in difficoltà. Potranno creare una bridge bank, ossia una “banca ponte” a cui trasferire temporaneamente le funzioni che si ritiene possano “sopravvivere” in attesa di poterle eventualmente rimettere sul mercato. Oppure potranno procedere con il cosiddetto “bail-in”.

Tutte queste misure hanno la finalità di dotare le autorità di poteri efficaci per gestire la crisi, evitando le situazioni di stallo osservate nel corso della recente crisi finanziaria.

Chi pagherà il costo delle crisi?

Il principio cardine della nuova regolamentazione è che, a pagare per la crisi di un istituto finanziario, dovranno essere in primo luogo coloro i quali in quell’istituto hanno investito. Nel corso delle recenti crisi del settore bancario, azionisti e creditori junior hanno raramente pagato i conti della crisi. I prestiti subordinati, il cui valore avrebbe dovuto essere ridotto in caso di situazione di difficoltà finanziaria di una banca, hanno per lo più passato indenni i diversi episodi di crisi. Nessuna banca ha voluto imporre una riduzione di valore dei propri debiti subordinati, per evitare l’effetto stigma (ammettere una situazione di estrema difficoltà). E le autorità non hanno ritenuto opportuno imporre tali misure per evitare un effetto “contagio”, con l’aumento del costo del funding per tutto il sistema bancario in un periodo particolarmente delicato. Con le nuove regole, si vuole evitare il ripetersi di tale situazione.

In caso di crisi pagherà, innanzitutto, il top management della banca. La normativa prevede che i vertici di un istituto vengano sostituiti in caso di avvio di una risoluzione, fatto salvo che non si dimostri la necessità di mantenerli nei propri ruoli per garantire la continuità aziendale. In secondo luogo saranno chiamati a contribuire i titolari di azioni o strumenti di capitale. Prima ancora di avviare una procedure di risoluzione, le autorità valuteranno la possibilità di rimediare allo stato di dissesto di una banca tramite la riduzione del valore delle azioni o la conversione in azioni di strumenti di capitale.

Se ciò non dovesse rivelarsi sufficiente, le autorità di risoluzione avranno a disposizione, oltre alle opzioni sopra citate, lo strumento del “bail-in”. Il bail-in prevede la riduzione del valore di riserve e capitale (in primis) e a cascata degli strumenti aggiuntivi di capitale di classe 1 (in sostanza gli ibridi), degli strumenti aggiuntivi di classe 2 (alcuni subordinati qualificati), degli altri subordinati e delle altre passività ammissibili, fino alla copertura delle perdite determinate nell’ambito della procedura di risoluzione e per un ammontare sufficiente per permettere alla banca di rispettare i requisiti di capitale richiesti e riacquisire la fiducia sul mercato. Oltre alla riduzione di valore delle perdite, può essere imposta la conversione in capitale delle passività ammissibili, secondo lo stesso ordine di priorità. Rimangono esclusi dal bail-in, tra gli altri, i depositi protetti, le passività garantite, gli obblighi sorti per effetto di un rapporto fiduciario, le passività derivanti da partecipazione a sistemi di pagamento o regolamento, e alcune passività nei confronti di dipendenti, fornitori e sistemi di garanzia dei depositanti.

Dalla teoria alla pratica

Il nuovo impianto regolamentare appare, a prima vista, alquanto macchinoso e forse un po’ teorico. Ma le conseguenze potranno essere sicuramente rilevanti. In Italia, l’unico caso di supporto pubblico diretto verso una banca in crisi negli ultimi anni è stato quello del Monte dei Paschi (i cosiddetti Monti Bonds). Ebbene, se fosse stata in vigore la normativa, e se tali strumenti fossero stati equiparati a aiuti di Stato, prima di intervenire il Governo sarebbe stato tenuto a imporre un bail-in sui creditori per gli ammontari minimi previsti dalla normativa. Nel nuovo sistema, poi, le emissioni di subordinati computabili incorporano già, tra le “eligible liabilities”, il rischio di una possibile futura conversione o riduzione di valore. Accade così, ad esempio, che Banca Popolare di Vicenza abbia recentemente emesso un subordinato “eleggibile”, dovendo garantire un interesse prossimo all’11%.

In futuro, inoltre, la nuova normativa avrà conseguenze sulle banche che oggi vengono normalmente gestite tramite commissariamento, considerato che il commissario dovrà esercitare il proprio ruolo con le nuove opzioni offerte dalla normativa, ma anche tenendo in dovuto conto obblighi e vincoli connessi al nuovo framework. In Austria, dove è in vigore da luglio, la normativa è stata già applicata su Heta, la bad bank di Hypo Alpe Adria, su cui è emerso un “buco” di circa 8 miliardi di perdite e su cui è stata decisa una moratoria sul pagamento di parte del debito e degli interessi dovuti al creditore.

Funzionerà, e che impatti avrà il nuovo insieme di regole?

Funzionerà veramente questo sistema di regole? Si potranno evitare, in futuro, crisi quali quelli della Lehman Brothers? O quanto meno, sarà possibile ridurne al minimo gli impatti sul sistema economico (e sui contribuenti)?

Data la complessità del nuovo meccanismo di prevenzione e risoluzione delle crisi, è senz’altro presto per dirlo. Un primo effetto, però, lo si comincia ad osservare. Almeno parte dei potenziali costi ex-post che dovrebbero essere sostenuti in caso di crisi si sono trasformati in costi ex-ante che le banche devono sostenere. Le emissioni di strumenti ibridi o subordinati potenzialmente soggetti a bail-in sono e verranno effettuate ad un tasso più elevato che in passato, stabilito dagli investitori in base al profilo di rischio della banca e al rischio di dover essere chiamati a contribuire in futuro in caso di dissesto. In secondo luogo, le banche dovranno emettere una quantità rilevante di passività eleggibili (cioè potenzialmente sottoposte a bail-in), sostenendo, anche in questo caso ex-ante, i costi di un potenziale default. Infine, il fondo di risoluzione sarà alimentato con contributi versati dalle banche stesse.

In pratica, si stanno anticipando così tanto i costi, che si corre il rischio di ottenere l’effetto opposto, e la redditività del business bancario è messa in pesante discussione dalle nuove regole.

Molto dell’efficacia di lungo periodo del nuovo sistema dipenderà poi dalla credibilità e dalla capacità di enforcement. A fronte di crisi sistemiche quali quella appena passata, le autorità saranno veramente in grado di scaricare sui creditori delle banche una quota significativa dei costi di salvataggio? La risposta, evidentemente, ancora non c’è. Ma il sistema di regole è molto rigido e difficilmente derogabile: ad esempio prevede un minimo ammontare di bail-in prima che si possa concedere qualsiasi supporto pubblico.

Sicuramente dovrà cambiare (e sta cambiando) l’atteggiamento dei creditori delle banche (quelli non protetti secondo la normativa) che dovranno porre più attenzione a come investire le proprie disponibilità. Le regole, questa volta, sono state chiarite in anticipo, in modo da mettere ciascuno nella condizione di meglio indirizzare i propri investimenti. Dovrà quindi essere chiaro, d’ora in avanti, che anche nel caso delle banche, a fronte di un rendimento occorrerà accollarsi anche il relativo rischio, e che il principio per cui, alla fine, in caso di rischio di fallimento, interverranno sempre i Governi è forse stato lasciato alle spalle.

 

Riferimenti
Bank Recovery and Resolution Directive: Direttiva 2014/59/Ue del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014