Quelle che seguono sono alcune dichiarazioni pubbliche di due leader politici americani candidati alla presidenza.

 

1. “Il Messico ci tratta da stupidi, ma è molto furbo. E ci manda i Messicani peggiori, perché non vuole spendere soldi per loro. Costruirò un grande e bellissimo muro al nostro confine meridionale. Sono molto bravo a costruire muri. Il Messico lo pagherà ma sarà nostro”.

2. “La probabilità che Hitler raggiungesse i propri scopi sarebbe stata di molto diminuita se le persone fossero state armate”.

3. “Barack Obama è un pagliaccio e il più grande bugiardo che conosco”.

4. “Obamacare è la cosa peggiore capitata a questa nazione dopo la schiavitù”.

5. “Il concetto di riscaldamento globale è stato creato da e per i Cinesi, allo scopo di rendere le imprese americane meno competitive”.

6. “Se non resistiamo alle tendenze attuali, molto presto avremo [in America] qualcosa di molto simile all’Unione Sovietica”.

7. “OPEC? Non abbiamo nessuno a Washington che resta calmo e dice loro: non alzerete quei fottuti prezzi”.

8. “Le piramidi non sono tombe, sono state costruite per immagazzinare il grano”.

9. “Non importa veramente quello che la stampa scrive di te, finché possiedi un bel giovane pezzo di sedere”.

10. "Se un insegnante delle scuole fosse correttamente addestrato all’uso delle armi, e vi avesse accesso, starei molto meglio se la portasse con sé a scuola piuttosto che il contrario”.

11. “Rosie O’ Donnell [giornalista, ndr]? E’ disgustosa, dentro e fuori”.

12. “L’omosessualità deve essere una scelta, visto che molti uomini entrano in prigione etero e ne escono gay”.

13. “A causa dell’opera di Obama, non vedrete un altro presidente nero per generazioni e generazioni”.

14. “Perché le cliniche abortiste di Planned Parenthood sono collocate in maggioranza in zone urbane abitate da afroamericani? Per controllare la popolazione di colore”.

15. “Avevo ragione sulle vaccinazioni di massa. I dottori mentono. Salvate i bambini”.

16. “La teoria del Big Bang è una favoletta”.

Legenda: i numeri pari sono commenti attribuibili a Ben Carson, quelli dispari a Donald Trump. La notizia della settimana è che per la prima volta Carson ha sorpassato Trump nella media dei sondaggi come il più gradito all’elettorato repubblicano, dopo che il secondo aveva guidato la classifica per circa quattro mesi. È, come si può vedere, una non-notizia: fatta la tara della normale sovraeccitazione da campagna elettorale, le prese di posizione dell’uno e dell’altro hanno qualcosa di realmente differente? Esiste ancora il partito che fu di Lincoln e di Theodore Roosevelt, ma anche di Eisenhower e di Nixon? C’è una struttura che consente la formazione o perlomeno la selezione della classe dirigente su basi di capacità di governo, attendibilità, statura istituzionale?

Il dibattito repubblicano del 28 ottobre - considerato generalmente un mezzo disastro per il modo in cui le voci si sono coperte l’una con l’altra e per il livello basso dei contenuti  - è rivelatore dello stato di liquefazione in cui si trova il Grand Old Party (GOP) nel 2015. Un antico fenomeno, che ha luogo su scala almeno cinquantennale, sembra essere arrivato in qualche modo a maturazione. Era il 1964 quando a vincere la nomination repubblicana fu un Senatore dell’Arizona - Barry Goldwater - che preoccupava i centristi del partito per le sue posizioni considerate estreme sulla tassazione e sul confronto militare con l’Unione Sovietica (non sulla religione in politica, cosa che paradossalmente lo fece entrare successivamente in polemica proprio con la religious right). Era la prima volta, nel dopoguerra, che un appartenente all’ala destra del partito si aggiudicava la nomination. Ma basta scorrere l’elenco dei candidati di allora per capire su quale riserva potesse ancora contare il GOP cinquant’anni fa: ad opporsi (senza successo) a Goldwater erano figure della statura di Henry Cabot Lodge, William Scranton, Nelson Rockefeller. Il partito esisteva ancora; esisteva una dialettica tra un’anima moderata e istituzionale - forte nel Nordest, dove Cabot Lodge aveva la sua constituency, ma anche nei centri urbani, che votavano Rockefeller, e in California, con il Governatore liberal Earl Warren - e una conservatrice, agraria e populista, innervata nel Sud e nell’Ovest (gli stessi ampi spazi percorsi da un giovane Ronald Reagan quando muoveva i primi passi tra l’Illinois rurale, l’Iowa delle radio sportive e infine Hollywood). Il successo della candidatura Goldwater e la debolezza del corpo principale del partito (a soli quattro anni dalla solida esperienza della presidenza Eisenhower) era tuttavia una spia, ed è non a caso considerata da molti storici come anticipatrice delle future tendenze. Cosa stava succedendo nel Grand Old Party? Nel 1966 George F. Gilder e Bruce K. Chapman intitolarono un loro saggio The Party That Lost Its Head: letteralmente e simbolicamente, il partito andava azzerando la propria leadership. Ma anche la propria razionalità.

Ne era complice il nuovo sistema di voto delle primarie stesse. Negli anni Sessanta e Settanta giungeva a compimento, con un certo parallelismo, il processo di democratizzazione interna dei due grandi partiti americani. Anche gli ultimi Stati che avevano fino ad allora evitato il voto diretto alle primarie per il candidato presidente, preferendo il complicato sistema dell’incarico ai delegati «senza mandato», si arrendevano al nuovo metodo: non si votavano più delegati unpledged, che andavano alla convention del partito pronti a discutere e a barattare il proprio sostegno per questo o quel candidato, a trovare mediazioni e compromessi, ma al contrario, in modo sempre più frequente, si sceglieva direttamente il proprio candidato, vincolando così i delegati a riportare fedelmente tale opzione in sede di convention. Il nuovo sistema tende a favorire la rigidità rispetto alla flessibilità, i dogmatismi e le posizioni estreme rispetto alle convergenze. E lo fa in entrambi gli schieramenti: nel partito democratico, la vecchia élite centrista è spazzata via dalla New Left, figlia del Sessantotto.

Il problema è che, mentre i Democratici hanno impiegato i quarant’anni successivi (dei quali molti all’opposizione rispetto a Reagan e a Bush) a fare sintesi tra le anime diverse e riottose, e appaiono ora, al netto di alcune sfumature, un partito sostanzialmente uniforme ideologicamente e che continua a guardare al centro (ne è prova il fatto che la candidatura di Bernie Sanders stia mostrando i primi segni di affaticamento rispetto a Hillary), il nuovo sistema non è stato interpretato in modo simile dai Repubblicani. L’immenso sottobosco di predicatori, conduttori radiofonici, blogger, esponenti dei Tea Party, militanti dispersi che è germinato in termini talvolta anche spettacolari e pittoreschi in questi decenni è sì una riserva di energie, ma anche e soprattutto un continuo, incessante fattore di destabilizzazione. Tanto che ha contagiato di radicalismo anche le élite: quella di oggi è un’America dove i Murdoch e i Koch e i Trump hanno preso il posto dei Rockefeller, dove molte dinastie imprenditoriali non solo hanno perduto ogni vocazione alla ragionevolezza e alla stabilizzazione del sistema, ma agiscono al contrario da eccitatori. Forze esterne alla politica - dell’economia, dei media, della finanza, delle piazze - occupano fisicamente lo spazio che fu del partito. Liberatasi delle proprie “bestie nere” centriste, la destra statunitense offre in questo 2016 una monocromia di outsider che - parafrasando il lessico del Sessantotto - esprimono tutto il conformismo dell’anticonformismo. Sono indistinguibili.