Sino ad oggi la politica di quantitative easing attuata dalla Banca centrale europea è stata particolarmente avara di risultati. I dati di crescita del Pil dimostrano come l’efficacia del QE 1.0 sia stata alla fine di poco più di un decimale per anno. Per essere veramente incisiva, la Bce dovrebbe adottare un nuovo programma (QE 2.0) in cui la maggiore moneta creata alimenti in modo diretto la domanda di beni di consumo e di investimento.

Il Quantitative Easing europeo 1.0

Nel suo meeting di dicembre la Banca centrale europea (Bce) prenderà in considerazione l’ampliamento e l’allungamento del suo programma di quantitative easing (QE). Il programma, ricordiamo, prevede l’acquisto di obbligazioni sul mercato aperto dei capitali da parte della Bce per un importo pari a 60 miliardi di euro mensili, fino a un massimo di 1100 miliardi, e dovrebbe terminare a settembre del 2016.

L’obiettivo del programma è liberare i bilanci delle banche dell’eurozona di investimenti redditizi (tipicamente i titoli di Stato a lungo termine) comprandoli a un prezzo crescente, dovuto all’aumento artificiale della domanda posta dalla Bce rispetto alla domanda normale degli investitori. A causa di questo, le banche realizzano una plusvalenza e hanno in aggiunta liquidità da investire, per esempio in maggiori crediti; il prezzo dei titoli sale, e quindi i rendimenti scendono, il che rende meno oneroso per i governi rifinanziare il debito in scadenza (ossia, le nuove emissioni costano meno delle vecchie). Schiacciando il costo del debito dell’eurozona (attualmente al 2,5 per cento del Pil) i governi hanno più spazio per le manovre espansive, da realizzarsi o attraverso la spesa, o riducendo le imposte. L’aumento di domanda effettiva conseguente al QE rispetto a quella programmata senza QE dovrebbe inoltre tornare a premere sulla dinamica dei prezzi, riportandoli dall’attuale +0,1 per cento annuo più vicino al target del 2 per cento.

Le quattro principali critiche al QE

Questa, in sintesi, la filosofia del QE. Non tutti sono d’accordo sul fatto che il QE sia virtuoso. Si potrebbe infatti affermare che:

  1. il QE induce ad allocazioni errate degli investimenti, perché rende troppo poco costoso il denaro, che finisce di prendere rischi eccessivi;
  2. attrae gli investitori verso i beni finanziari, i cui prezzi sono gonfiati dagli acquisti della Bce, mentre gli investitori stessi trascurano gli investimenti reali;
  3. il QE poi tiene in vita artificialmente pezzi di economia che dovrebbe essere riconvertita e quindi rallenta le ristrutturazioni dei debiti e soprattutto degli investimenti in capitali improduttivi (ostacola la distruzione creatrice di Schumpeter);
  4. il QE, infine, riducendo il rendimento dei risparmi investiti a lungo termine, come il risparmio pensionistico, determina un aumento del tasso di risparmio corrente, che si contrappone alla spinta a spendere a credito, sostanzialmente annullandola.

Il QE 1.0 alla verifica dei numeri

Crediamo che, così come è stato concepito, il QE sia probabilmente poco efficace per tutti gli ultimi tre i motivi sopra addotti. Inoltre, come è argomentato su questo sito, per estendere il QE 1.0 ci vorrebbero più titoli investibili, e quelli del QE 1.0 inizieranno a scarseggiare di qui a poco.

Per essere efficace, il QE dovrebbe agire rapidamente ed entrare quindi a spingere la domanda effettiva nell’economia in tempi relativamente brevi. Cosa accade, invece? Andiamo sul sito della Bce e prendiamo di lì i dati per i nostri calcoli. Accade che negli ultimi dodici mesi il QE sia stato efficace a far crescere l’offerta di moneta (M3) del 4,9 per cento[1]. A fronte di questa crescita della moneta (M3), il credito totale all’economia è cresciuto di meno, ossia solo del 2,1 per cento, e già questo dovrebbe far sorgere qualche dubbio. Guardando dentro quest’ultima crescita, essa si compone di un aumento dei crediti al settore pubblico del 7,2 per cento e un aumento del credito al resto dell’economia privata di appena lo 0,2 per cento. Quindi, il QE per il momento non ha mosso il credito ai privati, imprese e famiglie, quanto meno nei termini in cui ci saremmo aspettati[2].

L’efficacia del QE 1.0 è alla fine dello 0,04 per cento di Pil in più trimestrale, poco più di un decimale per anno

Alla fine, essendo stato modesto l’aumento di pressione sulla domanda dei beni finali, il Pil dell’eurozona si è mosso poco nell’ultimo trimestre (Q3-2015), ossia appena dello +0,3 per cento. Poiché un anno fa la velocità del Pil, senza QE, era dello +0,26 per cento, il miglioramento è stato di 0,04%, ossia siamo ad apprezzare le variazioni dei decimali di punto percentuale.

Per un economista monetarista il risultato è coerente con la teoria. Siccome la moneta non può creare reddito dal nulla e la moneta non dovrebbe essere fatta crescere più del tasso di crescita desiderato del Pil e dell’inflazione desiderata; l’eventuale eccesso di moneta creato o si traduce in maggiore inflazione, se ce ne sono le condizioni[3], oppure si traduce in riduzione della velocità di circolazione della moneta. Ma il tasso di disoccupazione dell’eurozona, sempre dal sito della Bce, è del 10,9 per cento: questo dimostra capacità produttiva inutilizzata, quindi il quantitative easing che non si è scaricato sulla domanda dei beni non può generare inflazione e ha semplicemente ridotto la velocità di circolazione della moneta (come mostra la figura 1).

 

Figura 1 – Andamento della velocità di circolazione di M3 nell’eurozona. Elaborazioni su dati BCE

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Condividiamo quindi il fatto che la Bce si ponga il problema della revisione della sua politica, che ci sembra, a tutti gli effetti, avara per il momento di effetti reali. Essa, tuttavia, non avrebbe potuto non esserlo, visto il meccanismo particolarmente indiretto per fare arrivare la maggiore moneta creata fino alla domanda dei beni di consumo e di investimento, reali e finali.

All’eurozona in ristagno strutturale serve un cambiamento di regole

Realizzeremmo il QE diversamente, anche se questo dovesse comportare il cambio di alcune regole costitutive dei Patti europei.

 

Figura 2 – Il tasso di crescita del reddito per abitante a prezzi costanti e in divisa locale in Europa tra il 1999 e il 2014. Suddivisione dei paesi in No-euro, Early Adopters dell’euro e Late Adopters.
Fonte: elaborazioni su dati FMI World Economic Outlook Database

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In definitiva, fin qui i paesi dell’eurozona hanno sofferto di una minor crescita strutturale, che si evidenzia ormai piuttosto bene per via del numero di anni dall’inizio dell’esperimento, partito nel gennaio del 1999.

In sedici anni (figura 2) il reddito pro capite nell’eurozona è aumentato in termini reali di un quarto dell’aumento avvenuto nei paesi europei rimasti fuori dall’eurozona. In alcuni casi, come quello italiano, il reddito pro capite è addirittura regredito. Ciò rende legittimo ritenere che il percorso subottimale della crescita non si deve solo a elementi endogeni del sistema economico (come la demografia debole), ma anche ai meccanismi istituzionali dell’eurozona. Quelli che obbligano il QE a una strada tortuosa e indiretta per spingere la domanda di beni ne sono un esempio.

Il QE 2.0: una proposta di farlo arrivare direttamente alla spesa pubblica in conto capitale

Per creare un canale diretto tra il QE e l’economia reale saremmo passati per la spesa pubblica per gli investimenti. La spesa pubblica per gli investimenti è importante, perché gli investimenti pubblici hanno di solito un doppio effetto, uno immediato sul Pil per via della maggiore domanda di beni e di fattori della produzione; uno a medio termine sulla produttività, perché se sono bene indirizzati gli investimenti pubblici possono far crescere l’efficienza del sistema (si pensi a una nuova strada o a una nuova ferrovia che abbassino i costi del trasporto).

Gli investimenti pubblici valgono nei paesi dell’eurozona 287 miliardi (valori del 2012; figura 3) e corrispondono al 2,7  per cento del Pil dell’eurozona, che è di 10.100 miliardi di euro. L’idea è semplice ed esposta qui di seguito; è una manovra annuale, che potrebbe essere ripetuta per più anni, se servisse:

  1. Una agenzia europea, per ipotesi la Bei, aprirebbe uno conto corrente a tutte le autorità pubbliche europee, anche quelle più piccole, purché abbiano una autonomia giuridica. La Bei accorderebbe a ciascuna un fido pari alla spesa in conto capitale media degli ultimi cinque anni, certificata dal proprio revisore o organo di controllo;
  2. Il fido sarebbe utilizzato solo per gli investimenti; il tasso di interesse sarebbe pari alla media dei tassi di mercato sui titoli governativi decennali del proprio paese di riferimento. La durata del fido sarebbe decennale;
  3. Prima di tirare il fido, gli enti pubblici costituirebbero a favore della Bei una garanzia pari al 50 per cento della somma che vogliono utilizzare. Valgono anche le garanzie assicurative e bancarie. Gli enti che si associassero per l’impiego delle risorse avrebbero un premio di fido;
  4. L’importo non tirato entro dodici mesi potrebbe essere assegnato a chi fa domanda di extra-fido
  5. La Bei erogherebbe con una anticipazione di mercato. Al termine dell’erogazione, la Bei cartolarizzerebbe i prestiti in una o più serie di obbligazioni collateralizzate e dotate di rating che la Bce sottoscriverebbe o comprerebbe subito dopo l’emissione. Ed è qui che entrerebbe in gioco il meccanismo di creazione di moneta, ossia il QE 2.0.

Gli effetti del QE 2.0: 1,5 punti aggiuntivi di Pil, senza contare che non bisognerebbe espandere la base monetaria oltre i limiti del QE 1.0

L’operazione comporterebbe un’erogazione diretta di 200-300 miliardi, interamente finanziata da creazione monetaria e che sarebbero immediatamente spesi nell’economia e muoverebbero anche il mercato del lavoro. Essa sarebbe sostenibile per la Bce, perché corrisponderebbe al 40-50 per cento dell’importo attualmente previsto dal QE 1.0, e non ci sarebbe necessità, pertanto, di ampliarlo. Il QE 2.0, inoltre, potrebbe essere compatibile con una riduzione del QE 1.0, che è assai simile a quello americano e che ha mostrato quanto sia difficile ritornare ai tassi di interesse normali dopo avere portato a zero, per sette anni, quelli ufficiali.

L’impatto aggiuntivo del solo QE 2.0 sulla domanda aggregata dovrebbe essere di 1,2 punti percentuali, quello finale sul Pil di almeno un punto e mezzo, sull’occupazione di almeno 1 punto. In Italia significherebbero 250 mila posti di lavoro aggiuntivi all’anno.

I patti europei, naturalmente, dovrebbero essere rivisti per permettere un’iscrizione speciale di questi prestiti fuori dal debito e dal deficit pubblico generale, per non fare scattare le regole del patto di stabilità e le clausole di salvaguardia.

La proposta in questione è fatta non tanto per sostituirsi al piano Junker, ma per affiancarlo. Quello, infatti, riguarda le grandi opere pluriennali. Questa, invece, riguarderebbe gli investimenti necessari e subito realizzabili: strade da rifare, scuole e ospedali da ristrutturare, macchine e impianti sanitari da cambiare, nel modo più distribuito possibile. E’ una proposta che, pur nascendo dalla inefficacia del QE 1.0, approda a un modello per certi versi simile alla proposta di revisione del QE britannico formulata in Regno Unito dal nuovo leader dei Labour, Jaremy Corbin, già analizzata nella nostra Lettera.

Se alla scadenza decennale non tutte le obbligazioni venissero rimborsate integralmente, per il default di alcune delle autorità pubbliche debitrici, quelle non rimborsate andrebbero computate nel bilancio pubblico generale. Ma allora i casi sarebbero due. Se nel frattempo l’economia dell’Ue fosse cresciuta, il maggiore debito si sarebbe diluito su un Pil maggiore e sarebbe diventato sostenibile. Se invece l’economia fosse malauguratamente ancora in mezzo al guado, a ben vedere avere in portafoglio questi titoli o quelli degli Stati sarebbe per la Bce la stessa cosa: a prezzi di mercato varrebbero di meno i primi come varrebbero meno i secondi. Ed è qui che si vede che il QE 2.0 avrebbe né più né meno gli stessi rischi per la Bce del QE 1.0, ma in compenso sarebbe più efficace.

A ben vedere, non vi sarebbero ostacoli sostanziali al QE 2.0. Gli ostacoli che vediamo sono politici e formali, quali la resistenza dell’Unione europea a non evolvere in un unico soggetto politico omogeneo e i tempi per modificare le regole coinvolte dal QE 2.0. Non sarebbe purtroppo la prima volta che l’Unione affronta i problemi comuni con un apparato di strumenti insufficiente, a causa dei vincoli posti a se stessa dalla diffidenza degli Stati.

 

Figura 3 – Gli Investimenti pubblici nell’eurozona, per paese, milioni di euro, Fonte: elaborazione su dati OECD

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[1] L’offerta di moneta è basata sulla base monetaria, ossia sulle passività del bilancio della banca centrale, moltiplicate dal sistema bancario.

[2] L’espansione dei bilanci pubblici (lato spesa) nel corso degli ultimi dodici mesi è stata del 2 per cento in termini nominali (per lo più bilanciati da pari entrate), dunque anche il maggior credito al settore pubblico è servito a rinnovare i debiti e non è finito in domanda di beni reali e servizi reali.

[3] Se l’economia è prossima al limite di pieno impiego, l’aumento dell’offerta di moneta produce la crescita del livello generale dei prezzi, ossia l’inflazione.