La mirabolante ascesa di Donald Trump nel panorama elettorale degli Stati Uniti ha dato adito alle più svariate interpretazioni politiche e sociali ma un fatto è certo, che il fenomeno Trump è strettamente legato al triste destino della classe media americana.

La grande classe media americana, universalmente ammirata per la sua forza trainante nello sviluppo politico e economico della nazione, è divenuta, nelle parole di Robert Reich, una “anxious class”, una classe in preda all’ansia ed in piena rivolta. Questa è la dinamica che sospinge la prepotente candidatura di Donald Trump, l’arcimilionario trasformatosi in paladino di una massa di Americani che non sono andati oltre il titolo di studio della scuola media secondaria. Stando agli ultimi rilevamenti demoscopici, Trump riscuote l’appoggio del 41 per cento dei Repubblicani e di coloro che tendono a votare per il GOP repubblicano. Cosa è successo dunque alla classe media americana per arrivare a questo punto? La risposta più evidente è che si stia contraendo ad un ritmo preoccupante. Nel 1971 la classe media costituiva il 61 per cento della popolazione complessiva. Oggi è inferiore alla somma degli Americani poveri e ricchi. Se si scava più a fondo, ci si imbatte in un dato quanto mai sorprendente: all’interno della classe media, stanno molto meglio gli anziani che i giovani. Il reddito degli Americani di età superiore ai 65 anni è aumentato, grazie soprattutto agli “entitlements” federali, nel giro di pochi decenni. Nel 1971, infatti, gli Americani di quell’età erano al livello economico più basso. Oggi metà di essi godono di un introito medio.

Le statistiche relative alla classe media sono impietose. Due terzi degli Americani vivono “paycheck to paycheck” ossia guadagnano mensilmente quanto serve per vivere modestamente senza accantonare risparmi. La classe media è quindi vulnerabile da parte di forze che non può controllare e la rete protettiva del governo federale è limitata. Tra le cause di ansietà vi è l’insicurezza sociale, in particolare la percepita mancanza di protezioni contro il crimine ed il terrorismo, una sensazione che in parte spiega la corsa all’acquisto di armi nel Paese. Un’altra causa dell’ansietà è la constatazione – contenuta in uno studio dei politologi Martin Gilens e Benjamin Page – che le esigenze e le istanze dell’Americano medio hanno un impatto statisticamente minimo sulla politica pubblica, in pratica la legislazione. Ecco perché un Donald Trump, che si presenta come uomo forte ed impervio alle pressioni dello establishment, acquista credibilità e legittimazione quando promette di proteggere il ceto più svantaggiato dalla instabilità sociale e dalla sperequazione economica e politica. 

Le iniquità insite nel sistema capitalista e il diffuso convincimento che l’avidità dei grandi agenti finanziari ed economici impedisca che i benefici di un’economia in espansione filtrino verso il basso sono sempre più alla base di una crescente rivolta della classe media contro un establishment giudicato insensibile ai suoi bisogni.  Tra questi spiccano la garanzia della sanità pubblica e un’istruzione superiore accessibile a tutti con costi tollerabili, se non addirittura gratuita come propone il senatore socialista Bernie Sanders per le istituzioni pubbliche. Ed ancora, tra i temi della campagna elettorale che toccano gli interessi della classe media vi è quello della riforma fiscale che trova schierati sia gli aspiranti democratici Bernie Sanders e Hillary Clinton contro lo strapotere di banche e istituti finanziari mentre Donald Trump promette forti sgravi fiscali per la classe media ed in modo speciale per quegli individui che guadagnano meno di 25.000 dollari e che, stando al suo piano di riforma fiscale, non pagherebbero tasse.  Resta il fatto che la maggioranza delle famiglie americane – circa il 45 per cento delle coppie sposate – non paga tasse federali. Le proposte tributarie di Trump aumenterebbero di poco la percentuale degli esenti dal pagamento di tributi federali. Malgrado questa salvaguardia fiscale, la maggioranza della classe media sbarca a malapena il lunario.  

In breve, per quanto possa sembrare assurdo nel caso di un personaggio con una fortuna personale superiore ai dieci miliardi di dollari, Donald Trump è riuscito ad identificarsi con quello strato dell’elettorato americano che nutre un forte risentimento verso le istituzioni finanziarie ed un sistema politico che sembra favorire il capitalismo “winner take all”. Questa strategia, unita alla pervicace condanna della “political correctness”, ha adottato lo slogan “Make America Great Again” (Rifacciamo Grande l’America). L’America era grande quando la mancanza di un titolo universitario non era un ostacolo al raggiungimento di uno standard di vita, e la classe media poteva contare su un reddito di lavoro in costante aumento. Nel 2014, il reddito medio negli Stati Uniti si era contratto del 4 per cento rispetto a quello del 2000. Non solo, perché stando alle statistiche del Pew Research Center, la ricchezza media di un Americano – ossia l’ammontare dei beni posseduti meno i debiti - era scesa del 28 per cento nel periodo 2001-2013 in conseguenza della crisi immobiliare e della recessione del 2007-09. Ed ancora, mentre nel 1971 gli Americani adulti al livello più basso di reddito costituivano il 16 per cento, nel 2015 questa percentuale era salita al 20 per cento. Sul fronte opposto, invece, la percentuale degli Americani con redditi alti era passata dal 4 per cento nel 1971 al 9 per cento nel 2015. In termini generali, la classe media che raggruppava il 61 per cento degli Americani nel 1971 si era ridotta al 50 per cento nel 2015.

Un gruppo di studiosi ha coniato tempo addietro un termine che descrive la nuova condizione economica dell’America”: plutonomy, uno stato di fatto finanziario in cui l’uno per cento più ricco possiede una ricchezza pari a quella complessiva del 90 per cento degli Americani con redditi inferiori. Gli stessi studiosi si abbandonavano ad una infelice conclusione secondo cui “la crescita economica è alimentata e largamente consumata dai pochi ricchi”. In verità, la tendenza più importante nel corso delle due ultime generazioni è stata quella di dividere gli Americani in due classificazioni, i vincitori e i perdenti.  Secondo lo stesso Pew Center, la famiglia tipica della classe media ha perso il 23 per cento della sua ricchezza durante l’ultima recessione, contro il 12 per cento della classe ricca. La recessione ha profondamente alterato il mercato del lavoro negli Stati Uniti riducendo il lavoro di natura semi professionale svolto dalla classe media. Vero è che dal 2000 ad oggi l’industria manifatturiera dell’America ha perso un terzo dei suoi posti di lavoro con un processo di trasformazione che ricorda il fenomenale tracollo dell’occupazione agricola nel ventesimo secolo. Le nuove tecnologie e il trasferimento di molta produzione in altri Paesi hanno colpito un vasto settore di lavoratori con moderate competenze teoriche e manuali. A soffrire maggiormente le conseguenze sono stati i lavoratori sprovvisti di istruzione e specializzazioni superiori.  Un dato curioso è che fino a tempi relativamente recenti il settore manifatturiero negli Stati Uniti dava lavoro allo stesso numero di dipendenti dei settori della sanità ed istruzione. Ma dal 2001 ad oggi, questi ultimi settori, dove prevale l’occupazione femminile, hanno dato lavoro ad oltre quattro milioni di Statunitensi mentre l’industria manifatturiera ne ha persi altrettanti.

Quello che né Trump né altri aspiranti Repubblicani dicono agli elettori è che il problema non è quello di rifare l’America grande riportando l’economia ai vecchi livelli, ma di cambiare strutturalmente il corso dell’economia con misure atte ad accrescere il tasso di crescita ed a far sì che un numero maggiore di Americani possa trarre beneficio da quella crescita. Gli esperti avvertono che la massima priorità dovrebbe essere conferita agli investimenti piuttosto che ai consumi dando impulso ad interventi federali nel campo della ricerca scientifica e ad un efficiente sistema tributario. Ed ancora, occorre che la nuova leadership nazionale trovi il modo di permettere alla classe media di avanzare senza investire tempo e scarse risorse in una laurea da conseguirsi in quattro anni.  Purtroppo, una percentuale troppo alta di Americani trova lavoro in occupazioni che richiedono poco “skill” ossia capacità e pagano bassi salari. Altrettanto deprimente è la previsione che l’offerta di lavoro continuerà ad indirizzarsi verso il basso.

Infine, tra i fattori che giocano a favore di Trump è il timore che l’immigrazione illegale eroda i valori nazionali e minacci ancor più le prospettiva di ripresa del mercato del lavoro. Per i perdenti, è più facile credere ad un imbonitore come il repubblicano Donald Trump che non al democratico Bernie Sanders che cerca di articolare un’agenda economica progressiva di stampo socialista. Tutto lascia pensare che la polarizzazione sia destinata a protrarsi se non approfondirsi. Certo è che il triste destino della classe media continuerà ad essere al centro del dibattito elettorale negli Stati Uniti, e potenzialmente decisivo per l’esito della corsa alla Casa Bianca.