L’uscita dalla crisi continua ad essere lenta e faticosa. A pesare sulla ripresa - e nonostante le politiche economiche sin qui avviate - giocano tre principali fattori: debito, demografia e distribuzione del reddito.

Il ragionamento condiviso dalle banche centrali e dagli economisti è quello che afferma che la crescita dell'economia è sostanzialmente stabile, salvo delle deviazioni (gli shock) che dopo qualche tempo sono riassorbite. E sono riassorbite grazie alle politiche economiche. Se così fosse, la crisi in corso dovrebbe rientrare presto, oppure sarebbe già rientrata. Invece, si arranca. Come mai? Si hanno tre fattori - Debito, Demografia, Distribuzione (del reddito) - che hanno impedito e impediscono un rientro veloce dalla crisi. Almeno, queste sono le ipotesi che sembrano ragionevoli.

Debito

La vicenda del debito è questa: si aveva molto debito privato all'alba della crisi, quindi nel 2007-2008. Esso pesava e pesa come un macigno perché inibisce la crescita dei consumi. Se il mio debito è elevato e insostenibile, ecco che alzo il mio risparmio per ridurlo. Il risparmio però si traduce in minori consumi. Come affrontare il nodo del debito eccessivo mentre si cerca di evitare una caduta dei consumi?

Una via è quella di ridurlo subito: esso viene ridotto d'imperio, le famiglie sono aiutate, ma non le banche. Una strada percorribile, se si riesce ad alzare (e tanto) l'inflazione. Ma oggi non è il caso.

L'altra via è quella della politica monetaria. I tassi sono schiacciati fino al punto che sono pari alla crescita del reddito. In questo modo, il debitore - pur molto esposto - è solvente. E' la strada prescelta dai paesi con un gran debito privato all'alba della crisi: Stati Uniti e Gran Bretagna. Peccato che i tassi praticati dalle banche centrali a quelle di credito ordinario, per quanto vicini allo zero, non siano vicini allo zero in sede di costo del debito dei privati. Segue che, quando l'economia cresce poco e quindi crescono poco i redditi dei debitori, anche dei tassi molto bassi non aiutano la riduzione veloce dell'onere del debito.

Per rimettere in carreggiata le cose la politica monetaria si è addirittura spinta verso l'acquisto diretto di obbligazioni sia sovrane sia private. La caduta dei rendimenti che ne è seguita (i prezzi salgono e la cedola è fissa, per cui i rendimenti scendono) ha spinto all'acquisto di azioni. L'idea era che ci sarebbe stato un “effetto ricchezza”: sentendomi più ricco per l'ascesa dei prezzi delle attività finanziarie, avrei speso di più. Peccato che la ricchezza sia concentrata e quindi quelli che hanno beneficiato – direttamente (obbligazioni) o indirettamente (azioni) - dell'acquisto di titoli da parte della banca centrale sono quelli che hanno la minor propensione al consumo (1).

Demografia

Come nel caso del debito, la dinamica demografica ha degli effetti di lungo periodo sulla crescita e sui tassi di interesse. Anzi più durevoli, perché le transizioni demografiche durano decenni. Intanto si vive di più, mentre i “baby boomers”, quelli che sono nati dopo la Seconda guerra, vanno in pensione, e il tutto avviene in un mondo dove nascono meno bimbi. Accade quindi che vi siano sempre più pensionati, e sempre meno nuovi lavoratori.

Se si vive più a lungo, di norma si risparmia di più prima di andare in pensione. Si alza il risparmio e quindi, tutto quanto restando eguale, scende il tasso di interesse. Un numero minore di persone in età da lavoro chiede meno capitale. Si riduce la domanda di risparmio, e quindi, tutto quanto restando eguale, scende il tasso di interesse. Già, ma il risparmio di norma nullo dei molti che sono andati in pensione non è compensato dal risparmio dei pochi che lavorano. Si riduce l'offerta di risparmio, e quindi tutto quanto restando eguale, sale il tasso di interesse. Alla fine, quale spinta prevale: il tasso di interesse sale o scende? Non si ha una ancora una risposta condivisa, ma le ricerche militano nella direzione della discesa.

Alla spinta al ribasso dei tassi, come frutto delle politiche delle banche centrali, si aggiunge la spinta, che dovrebbe durare di più, della demografia.

Distribuzione (del reddito)

Da ormai molto tempo la distribuzione del reddito e della ricchezza sta divaricando. Se si misura l'ineguaglianza (con l'indice di Gini) del reddito senza e con le spese abitative, si ha una ulteriore divaricazione a favore di chi eredita l'abitazione o se la può permettere (2). La questione, alla fine, è semplice ed ha a che fare con la propensione al consumo. I ricchi consumano sempre meno per ogni incremento del loro reddito. Se aumenta la diseguaglianza dovremmo avere un incremento del risparmio. Tutto quanto restando eguale, dovremmo avere una discesa del tasso di interesse. Non si ha ancora su questo punto una risposta condivisa, ma le ricerche militano nella direzione della discesa.

Conclusioni

E qui il cerchio si chiude col debito. I meno ricchi - per mantenere un tenore di vita costante - si indebitano più di quanto farebbero se fossero appena più ricchi. L'onere del loro debito alla fine pesa, anche con dei tassi di interesse bassi. I quali tassi per quanto bassi non spingono nella direzione della crescita, come si immaginava.

Una digressione: Flussi e Stock

Una volta si pensava (Greenspan, nel 2008) che “a rising debt-to-income ratio for households, or of total nonfinancial debt to GDP, is not, in itself, a measure of stress. It is largely a reflection of dispersion of a growing financial imbalance of economic entities that in turn reflects the irreversible up-drift in division of labor and specialization…Rising leverage appears to be the result of massive improvements in technology and infrastructure, not significantly more risk-inclined humans” (2).

Insomma non si dava poi molta importanza agli Stock e si ragionava soprattutto in termini di Flussi. Ma è arrivata la crisi. Oggi c'è – Caruana, l'AD della Banca dei Regolamenti Internazionali – chi pensa che sia il caso di ribaltare la gerarchia: si ragioni in termini di Stock.

“We know that some debt can provide welfare benefits: it allows smoothing consumption and offsetting demand shocks by reallocating spending over time, and it permits firms to invest faster than their own cash flows would allow. However, reality is more complex; we have not seen that much real investment, and risk-taking activities have focused more on financial markets. Moreover, we have also learnt that rapid credit growth creates vulnerabilities and can culminate in costly defaults and crises…financial booms go hand in hand with a misallocation of resources, depressing productivity on the way…During boom times, when asset prices are rising and financial markets are tranquil, borrowers may be lulled into a false sense of security” (2).

Quando si ricorda la cattiva allocazione delle risorse, si punta quasi sempre il dito contro il settore immobiliare. I boom del credito alimentano il settore immobiliare, il quale è di norma ignorato nei libri di testo, che parlano di “business cycle”, ma non di “consumer cycle”, che parte dal settore immobiliare e poi si riversa sull'economia. L'argomento è piuttosto complesso e merita una nota a parte, che pubblicheremo al più presto.

(1) “S&P: QE ‘exacerbates’ inequality“, FastFT, February 5, 2016, http://www.ft.com/fastft/2016/02/10/sp-qe-exacerbates-inequality/

(2) “It’s the stocks, not the shocks”, Matthew C. Klein, FTAlphaville, February 5, 2016 http://ftalphaville.ft.com/2016/02/05/2152351/its-the-stocks-not-the-shocks/