Intervista di Francesca Silvia Rota con Valerio Lastrico, autore per il Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica del Centro Einaudi del saggio “Tecnocrazia come egemonia valoriale depoliticizzata” (Working Paper LPF n. 6-2015).

FR/ Valerio, la collana dei working papers del Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica ha di recente pubblicato il tuo contributo “Tecnocrazia come egemonia valoriale depoliticizzata. Quali frameworks teorici nei conflitti e nelle pratiche sociali contemporanee?”. Vuoi presentarci brevemente finalità e contenuti del tuo lavoro?

VL/ L’obiettivo è principalmente teorico: verificare se, quanto e cosa delle teorie classiche sulla tecnocrazia sopravviva nelle teorie sociali più recenti, e come questo a sua volta si inserisca, magari in maniera inconsapevole, nei discorsi dei soggetti collettivi.

FR/ Molto interessante è a mio avviso la questione della “politica degli indicatori”, ossia la tendenza da parte della politica a individuare i propri obiettivi - e quindi le giustificazioni del proprio operato - sulla base del conseguimento di indicatori di tipo economico finanziario (PIL, spread ecc.). Ciò è però pericoloso perché, da un lato, la politica rinuncia ad essere orientativa rispetto a dei valori, dall’altro lato la validità stessa delle misure assunte è dubbia sia dal punto di vista dei fenomeni che intendono fotografare sia dal punto di vista della loro interpretazione.

VL/ Il problema principale, a mio avviso, sta proprio nel fatto che le politiche economiche, per quanto presentate come inattaccabili evidence based policies quasi fosse una vergogna agire sulla base di valori, in realtà continuano a essere permeate di valori. E, in quanto tali, divisive sulla base di cleavages normativi. A risentirne, alla fine, è la stessa visione collettiva dei dati tecnici: si utilizzano gli indicatori per dimostrare l’oggettività e univocità delle politiche, ma la natura valoriale di queste ultime porta ad un utilizzo delle prove ben diverso da quello del laboratorio, e più vicino a quello del tribunale. I numeri infatti non sono univoci, visto che le varie parti in gioco si appellano a numeri in contrasto fra loro; e neppure interpretati in maniera univoca, ma secondo le varie lenti di lettura. Al di là di questo, poi, e in maniera più radicale, il fatto stesso che la complessità sociale possa essere ridotta a indici sintetici (perché aspirano a sintetizzare, ma anche perché sono artificiali) è rimessa in discussione da vari attori collettivi. In tal senso il dibattito su cosa dovrebbe veramente essere misurato attraverso il PIL, se il solo benessere economico o anche il benessere sociale, è di fatto superato dalla critica che non è tanto l’oggetto della misurazione, ma l’idea stessa di misurare, a nascondere una visione del mondo che non sarebbe né universale, né valida. I numeri infatti, come ammettono gli stessi Daly e Cobb, che pure sono tra i promotori della revisione del PIL, hanno ormai più a che fare con l’indottrinamento al sacro e inconfutabile, che non col metodo scientifico.

FR/ Un altro aspetto che mi interessa approfondire è quello della contrapposizione tra soluzioni tecnocratiche, apparentemente prive di valori, e le rivendicazioni valoriali della democrazia sostanziale e partecipativa. È davvero così? Oppure anche la tecnocrazia porta avanti dei valori, magari non confessabili, perché legati a lobby e gruppi di potere?

VL/ Come spesso accade, la realtà pare essere più complessa di come le facili ricette la vogliono mostrare. La stessa democrazia partecipativa di matrice habermasiana, che si pone spesso esplicitamente l’obiettivo di recuperare la natura intrinsecamente politica e pluralistica e della democrazia, contro gli attacchi omologanti della tecnica, nasconderebbe in realtà il rischio di appiattire la partecipazione sulla procedura, fermandosi alla performance giuridica, e quindi tecnica, dell’interazione, depoliticizzandola. Viceversa, la sociologia della scienza da almeno mezzo secolo ci mostra come, indubbiamente, ogni forma di tecnocrazia porti avanti valori al pari di qualsiasi altra attività sociale. Il tecnico è politico, e se finge di non essere tale, spesso lo fa in cattiva fede. Se questo è vero sempre, pare esserlo ancor di più da quando il ricorso alla tecnica sembra aver di gran lunga superato in efficacia ogni altra fonte di legittimazione, a partire dalle ideologie. Non per questo le ideologie sono scomparse, basti pensare a quella del neoliberismo, ma anzi sono state a tal punto assorbite dalla tecnica, atta a dimostrare la validità dell’ideologia, da non essere più percepite come tali.

FR/ Nel tuo lavoro si evidenzia la percezione negativa che i nuovi movimenti sociali (new-global, movimenti per la decrescita, reti che agiscono all’interno dei conflitti ambientali) hanno della tecnocrazia in quanto espressione dell’economicismo capitalista e degli interessi dominanti. Ma nonostante ciò, “la tecnocrazia pare mantenere comunque la sua forza legittimante”. È così? Perché avviene? Quanto gli stessi movimenti della società civile (critici, progressisti e favorevoli a forme di democrazia diretta) fanno un uso legittimante della tecnica?

VL/ Questo avverrebbe perché la tecnica pare offrire, ai movimenti, un punto di appoggio ben più consistente di quello tradizionale della politica partitica, delegittimata e in crisi. Di fronte ad una visione sempre più negativa dello scontro politico, visto come luogo del mero interesse personale o di club, la tecnica, agli occhi di alcuni soggetti collettivi, pare paradossalmente rappresentare un baluardo in difesa della democrazia, in quanto indicherebbe in maniera oggettiva quello che è l’interesse generale. Non è forse un caso se Hibbing e Theiss-Morse hanno riscontrato come, nell’ambito di un quadro di generale sfiducia verso le istituzioni, le uniche a salvarsi paiono essere quelle meno direttamente politiche, in primis quelle tecniche.

FR/ Sempre nel tuo lavoro, si parla di “diktat dei mercati presentati come oggettivi e razionali secondo la vulgata neoliberista”. A questo riguardo in un recente articolo di AL, Giorgio Arfaras mette in dubbio molte delle critiche mosse ai neoliberisti, tra cui il fatto di essere i principali responsabili degli attuali problemi dell’economia e della società. Come rispondi?

VL/ Come ovvio la realtà è sempre molto più complessa di quanto riescano a cogliere le critiche riduttive che individuano uno ed un solo oggetto di blaming. Ciò detto, le situazioni dell’economia e della società, siano esse positive o negative, non capitano per caso, come fossero calamità naturali, ma sono il frutto di un complesso di scelte ben precise, di politiche, di misure adottate. Ora, all’interno di questo complesso, mi pare innegabile che molte fra le scelte politiche più o meno recenti, che abbiano qualcosa a che fare con la situazione attuale, siano ascrivibili ad una specifica ideologia, quella del neoliberismo, che pure nasconde il suo essere ideologia e rifugge le proprie responsabilità difendendo tali scelte come necessitate da oggettivi dati tecnici. La critica più pregnante al neoliberismo non è infatti quella che lo riduce alla mera dimensione dell’austerità, ma quella che lo smaschera, foucaultianamente, quale potere di imporsi alle coscienze.

FR/ La mia ultima domanda riguarda il ricorso alla tecnocrazia come fallimento della politica e indebolimento della democrazia: è davvero tutta colpa di una classe politica incapace e non interessata a prendere decisioni politicamente scomode? quanto è invece colpa di un elettorato indifferente (disilluso? clientelare? colluso?), incapace di nominare politici competenti?

VL/ Chiaramente è troppo facile scaricare come sempre le colpe solo sulla solita “casta”. Direi anzi che la colpa è soprattutto del corpo sociale, inteso non solo come corpo elettorale selezionatore di cattivi politici, ma come società civile (e singoli individui) incapace di sviluppare gli anticorpi necessari.

 

Valerio Lastrico ha conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia presso la Graduate School in Social and Political Science di Milano. La sua attività di ricerca si concentra sui rapporti tra conflitto e processi decisionali, e al fattore cognitivo dei due versanti.