È notizia recente il plauso del Pentagono alla proposta dell’Italia di assumere un ruolo guida in nella stabilizzazione della Libia. La Libia non è però il solo fronte su cui sembra imminente l’intervento militare italiano.

La situazione della sicurezza nell’area del Mediterraneo è sempre più grave e il nostro Paese pare ormai pienamente coinvolto nelle strategie che mirano a contenere le radici di questa instabilità. In particolare due interventi, che vedranno coinvolte con modalità e rischi molto diversi le forze militari italiane, sembrano ormai imminenti: si tratta delle operazioni in Iraq e in Libia. In entrambi i Paesi l’Italia sarà pesantemente coinvolta, essi rappresentano situazioni estremamente violente, rischiose, e soprattutto profondamente differenti dal punto di vista politico, strategico, tattico.

L’intervento in Iraq

La situazione in Iraq è inscindibile da quella in Siria e in generale dal conflitto geopolitico mediorientale che coinvolge sia potenze regionali (Turchia, Arabia Saudita, Iran su tutte) sia potenze di livello globale come Stati Uniti e Russia. Dal punto di vista tattico, negli ultimi mesi il controllo del territorio iracheno da parte di ISIS si è ridimensionato grazie a un rinnovato impegno delle forze di sicurezza di Baghdad sul terreno coadiuvato dal processo di addestramento e dall’appoggio aereo offerto dagli alleati occidentali. La conquista più rilevante e recente da parte del governo centrale è stata quella della capitale della provincia di al-Anbar, Ramadi. Gli indubbi progressi sul terreno non devono però far pensare a un crollo imminente di ISIS per svariate ragioni: il controllo iracheno su quei territori è assolutamente parziale, instabile e manca di veri progetti di ricostruzione e pacificazione; inoltre i miliziani hanno solo parzialmente bisogno del controllo del territorio per poter operare. Ciò è dimostrato dagli innumerevoli attacchi che sono riusciti a portare a termine nei primi mesi del 2016. Per esempio, lo scorso 4 febbraio 28 militari iracheni sono morti a seguito di due attacchi suicidi a Ramadi dove, con la stessa tattica, il 10 febbraio sono caduti altri 27 militari. A queste azioni vanno poi sommati attacchi su scala più ridotta realizzati un po’ ovunque nel Paese e in particolare a Baghdad, dove nella sola prima settimana di febbraio si sono registrati 65 attacchi di diversa natura con 76 morti complessivi. Tale situazione di instabilità ha costretto il governo centrale a iniziare la costruzione di un muro protettivo intorno alla capitale, un chiaro sintomo di un’insicurezza sempre più presente.

L’Italia è già parzialmente coinvolta in Iraq (voli di ricognizione con Tornado e unità addestrative sul terreno per la polizia a Baghdad e per i Peshmerga curdi a Erbil), ma è ormai decisa ad ampliare sensibilmente il suo impegno con due diverse missioni.

La prima missione, a Erbil, è di tipo “personnel recovery”, ovvero unità militari che intervengono nel caso in cui altro personale sia disperso o ferito e quindi necessiti di un’evacuazione immediata. Tali operazioni sono estremamente rischiose perché generalmente avvengono in territorio ostile spesso, e questo sarà probabilmente il caso delle nostre truppe, per recuperare personale militare impegnato in combattimento. A tale scopo si utilizzano elementi specificatamente addestrati, per l’Italia si tratterebbe di circa 130 incursori del 17° Stormo dell’Aeronautica Militare.

La seconda missione è completamente diversa perché mira a proteggere le operazioni di risanamento della diga di Mosul (che ha grossi problemi strutturali) a circa 50km a nord della città controllata ormai da due anni da ISIS. Alla società italiana Trevi è stato ufficialmente assegnato il lavoro da parte del governo di Baghdad il 2 febbraio, ma il coinvolgimento italiano deve essere letto in un quadro più ampio. Le forze irachene, appoggiate dagli Stati Uniti, sembrano prepararsi per la riconquista della città (un’operazione sicuramente lunga e complessa) e la difesa della diga è una priorità visto che la sua conquista da parte di ISIS significherebbe che i miliziani potrebbero utilizzarla, aprendola o facendola crollare, non solo per bloccare le operazioni offensive della coalizione, ma anche per colpire l’intera città di Mosul. I militari italiani si troverebbero così in prima linea, uniche truppe occidentali a esserlo, in una difesa statica contro cui ISIS potrebbe usare la sua arma migliore: gli attacchi suicidi con veicoli-bomba appositamente equipaggiati in officine locali per causare il numero massimo di vittime. Inutile, quindi, sottolineare la pericolosità della missione affidata a 450 uomini della Brigata Garibaldi (e la necessità di poter contare sia su mezzi pesanti come i carri Ariete sia su un appoggio aereo sostanzioso (da parte della Coalizione, certamente, ma anche degli elicotteri d’attacco italiani).

L’intervento in Libia

La Libia è una questione in parte diversa. La situazione sul terreno è forse ancor più frammentata di quella irachena vista la presenza di due governi (Tripoli e Tobruk, l’unico riconosciuto a livello internazionale), di una miriade di milizie con agende politiche molto diverse, di fratture tra tribù locali e di elementi stranieri legati a ISIS, che controlla parte della costa e in particolare la città di Sirte, e al-Qaeda. In Libia operano già forze speciali occidentali e si segnalano raid aerei di potenze straniere (Francia? Egitto? Sono certi invece alcuni raid americani), ma un’operazione più massiccia e complessiva viene legata all’istituzione di un governo locale in grado di unire le due capitali attuali e richiedere l’intervento internazionale. Il processo politico che dovrebbe creare questo governo non sembra però avere molto successo visto che il premier Fayez al-Sarraj non è ancora riuscito a raccogliere il consenso necessario e non controlla né le milizie né le forze militari del generale Haftar. Non sembrano dunque esserci i presupposti per un reale e duraturo governo che possa in qualche modo controllare il territorio. In questo quadro politico estremamente frammentato si deve poi inserire un elemento di ulteriore instabilità. ISIS si è infatti ampliato negli ultimi mesi e, malgrado numeri precisi siano impossibili da indicare, possiamo affermare che i suoi membri siano circa 5.000, soprattutto tunisini ed elementi provenienti dal Siraq. Gli attacchi alle infrastrutture petrolifere sono estremamente pericolosi, ad esempio il 31 gennaio miliziani legati a ISIS hanno attaccato e danneggiato il porto di Zueitina in Cirenaica e negli stessi giorni hanno conquistato la cittadina di Albuirat tra Sirte e Misurata.

L’intervento italiano in Libia sarebbe completamente diverso da quello in Iraq. La stampa nazionale sostiene spesso che il nostro ruolo possa essere quello di guida dell’operazione internazionale, ma da quella estera è difficile avere la stessa impressione. Sicuramente, molto dipenderà dal tipo di intervento che si andrà a condurre: addestramento per creare un nuovo esercito libico in grado di fronteggiare la minaccia jihadista; oppure operazioni di contro-terrorismo. Il primo sarebbe una riproposizione di un programma già tentato nel 2013-2014 (e che evidentemente non ha avuto molto successo) e soffre di un problema di fondo: presuppone che in Libia manchino soldati addestrati. In realtà ci sono, ma frantumati in una miriade di milizie che combattono per le loro agende politiche. Il problema quindi è l’assenza di un quadro politico generale e condiviso entro cui inserire e poi eventualmente addestrare i soldati. La seconda opzione avrebbe sicuramente effetti più immediati sul terreno, ma deve per forza di cose appoggiarsi ad alcune milizie locali. Ciò rischia di aumentare la spaccatura interna alla Libia dando l’impressione che l’Occidente appoggi una milizia piuttosto che un’altra.

Una soluzione facile non esiste perché la situazione libica è estremamente complessa e va affrontata su diverse scale (regionale, mediterranea, europea) e diversi i livelli (politico, militare), ma il ruolo dell’Italia in questo caso sarà probabilmente più logistico (come dimostra il recente caso dei droni americani decollati da Sigonella) e di intelligence anche se non si esclude un impegno sul terreno con forze speciali e consiglieri militari con compiti addestrativi. In particolare, la conoscenza del territorio libico e delle sue fratture socio-politiche da parte della nostra intelligence sarà un elemento importante per l’intervento, così come l’impiego delle basi, navali e aeree, di cui disponiamo che sono già utilizzate per voli di ricognizione.

Conclusioni

I due scenari, quello iracheno e quello libico, sono estremamente complessi ma molto diversi.  In entrambi i casi, come si è messo brevemente in luce, si tratta di contesti dove i governi nazionali sono falliti o comunque alquanto instabili. Se in Libia per l’Italia si può parlare di una parziale continuità con le operazioni internazionali precedenti (seppur con maggiori rischi e con un coinvolgimento più diretto), in Iraq, invece, si tratta di un’operazione di guerra a tutti gli effetti perché si difenderà un obiettivo sensibile che già ora si trova sulla linea del fronte tra curdi e ISIS e che probabilmente rappresenterà la barriera Nord dell’operazione di riconquista di Mosul che partirà da Sud.

L’Italia è un paese che spende pochissimo per il comparto difesa, ma allo stesso tempo ha in piedi varie missioni (in Afghanistan, in Libano oltre a quelle qui prese in esame e ad altre minori) e un impegno così massiccio rischia di rappresentare un pericoloso overstretch delle già scarse risorse, minando anche alla base tempi e risorse per addestramento, manutenzione e modernizzazione dei mezzi. Se l’intervento in Libia è senza ombra di dubbio una necessità strategica per l’Italia, quello in Iraq, che per di più pare essere militarmente più consistente e decisamente più rischioso, sembra rappresentare più un docile sottomettersi alle scelte politiche dell’alleato più forte, gli Stati Uniti, senza una reale riflessione sui problemi strategici e senza un quadro strategico nazionale. Il problema è proprio questo: l’intervento è una necessità strategica, ma in Italia manca quel dibattito geopolitico e quella riflessione politica in grado di offrire un quadro interpretativo più ampio e quindi dare un senso politico all’intervento stesso.