I recenti attacchi a Bruxelles hanno nuovamente mostrato la debolezza dell’Europa di fronte a una minaccia, che è ormai costante e pervasiva, ma che spesso si conosce molto pocosi conosce molto poco. Né si sa esattamente come definirla.

Nel fiume di parole che è seguito agli attacchi all’aeroporto e alle stazioni della metropolitana di Bruxelles, così come in concomitanza con attacchi precedenti, il termine più usato dai media è quello di terrorismo che, però, ad una più attenta analisi, appare riduttivo perché esso limita notevolmente sia la visione sul fenomeno, sia gli strumenti da adottare per contrastarne le minacce. Insomma, usare la definizione di terrorismo confina in uno spazio ristretto una minaccia che, invece, è più complessa e sfaccettata.

Per meglio comprendere il punto è utile partire dalla distinzione tra tattica e strategia. Clausewitz afferma che la tattica è “la dottrina dell’impiego delle forze armate nel combattimento, la strategia è la dottrina nell’uso dei combattimenti per lo scopo della guerra”. Per quanto riguarda Bruxelles, e azioni similari del recente passato, non vi è alcun dubbio che la tattica di attacco impiegata presenti molti dei caratteri tipici del terrorismo, tra cui:

  • l’utilizzo di piccole unità operative composte da pochi di uomini. Nel caso di Bruxelles due attentatori suicidi all’aeroporto (più uno in fuga) e forse uno solo alla stazione della metropolitana;
  • l’operare in ambiente urbano dove, anche grazie alla connivenza di alcune comunità, è più facile nascondersi e trovare appoggi;
  • colpire soft-targets che non richiedono particolari tattiche di avvicinamento, non sono protetti in modo specifico ma, allo stesso tempo, consentono di fare molte vittime. Se pensiamo a Parigi il 13 novembre 2015, il Bataclan e i bistrot rappresentano perfettamente questo aspetto;
  • utilizzo di bombe ed esplosivo artigianali, fatti in casa. Nel caso di ISIS si tratta di ordigni al TATP, ovvero il perossido di acetone.

Questi quattro elementi non esauriscono la definizione di terrorismo, ma di certo sono quelli tatticamente più rilevanti. Se dunque i caratteri dell’attacco sono quelli tipici del terrorismo perché si è detto che tale definizione è errata? La risposta risiede nel quadro politico-strategico (negli scopi della guerra, nella definizione di Clausewitz) in cui quella specifica tattica si inserisce, ovvero nel più ampio conflitto portato avanti, ormai da anni, da ISIS. Dire che la tattica d’attacco impiegata è di tipo terroristico non significa, infatti, affermare che chi pianifica, sovvenziona, realizza le azioni sia un terrorista. Il terrorismo jihadista va interpretato come un metodo d’attacco scelto per la sua semplicità operativa e perché si sposa bene con l’ambiente vulnerabile e ricco di obiettivi sensibili delle moderne città europee. La domanda che quindi dobbiamo porci non è tanto come fermare la tattica (in questo caso interventi di intelligence, lavoro di polizia e una legislazione mirata possono ottenere ottimi risultati, anche se va ricordato che la difesa assoluta dei soft-targets non può esistere), bensì quale sia la guerra, ovvero la strategia, entro cui l’atto terroristico si inserisce.

Qui però sorge l’enorme problema occidentale di utilizzare il termine “guerra”. Sin dagli attacchi dell’11 settembre 2001 si è ripetuto che parlare di guerra al terrorismo non è solo scorretto dal punto di vista concettuale, ma è anche un grave errore politico.

Il problema è che si continua a interpretare la guerra in modo eccessivamente ristretto, identificandola con i soli conflitti fra Stati sovrani, mentre il terrorismo di oggi rende necessario assumere una diversa prospettiva. Sebbene ugualmente letale e pericolosa, oggi la guerra è un qualcosa di più confuso ma allo stesso tempo diffuso, in grado di superare confini e vecchie categorie politiche e strategiche.

Due in particolare sono i fenomeni che hanno contribuito a trasformare la conflittualità contemporanea in un processo fluido e globale.

  • Primo, la crisi dello Stato-nazione che, in determinati contesti, ha contribuito alla nascita dei cosiddetti failed states, ovvero aree geografiche in cui, per le più varie ragioni, i Governi in carica non sono più stati in grado di controllare il proprio spazio politico, permettendo la presa di potere da parte di altri attori. Libia, Siria, Iraq sono i casi più noti. Lì organizzazioni come ISIS offrono addestramento, armi e supporto logistico. Ma secondo alcuni analisti, il Belgio stesso sarebbe un failed state, incapace di esercitare il pieno controllo su intere aree e quartieri (un problema tipico di tutte le mega città mondiali).
  • Secondo, la globalizzazione ha radicalmente mutato le capacità di spostamento di persone e cose, contribuendo da un lato alla stessa crisi dello Stato e, dall’altro lato, ampliando le potenzialità belliche di gruppi organizzati e singoli individui. Basti pensare alla facilità con cui i foreign fighters si muovono da un continente all’altro oppure alle enormi possibilità di finanziamento e approvvigionamento offerte dal mercato globale.

Dovremmo quindi intendere la guerra in modo più ampio, basandoci anche sulla lezione di Bobbio il quale la definiva non attraverso l’individuazione dell’attore Stato, bensì attraverso tre elementi: “a) un conflitto, b) tra gruppi politici rispettivamente indipendenti o considerantisi tali, c) la cui soluzione viene affidata alla violenza organizzata”. Che ISIS costituisca un gruppo politico indipendente e ostile non vi possono essere dubbi, così come sul fatto che utilizzi forme di violenza organizzata per condurre ciò che è a tutti gli effetti un conflitto.

Questo nuovo contesto ha anche fatto sì che molti analisti utilizzassero l’espressione “guerra ibrida”, intendendo con questo termine una forma di conflitto comunque pericolosa, ma  diversa dalla guerra fra Stati e combattuta, almeno da un lato, da attori non istituzionali che impiegano forme diverse di violenza. Un tipo di guerra in cui esiste una commistione di elementi regolari e irregolari, di tattiche militari convenzionali e altre legate alla guerriglia, all’insorgenza, al terrorismo o alla criminalità organizzata. L’organizzazione che porta avanti questa tipologia di guerra è strutturata in network, legata alla popolazione locale, irregolare nelle sue tattiche, ma al contempo abile tanto nell’uso di forme convenzionali di violenza quanto nel ricorso a strumenti e armi avanzate (dai social media ai programmi crittografici, dagli esplosivi ai missili).

La minaccia ibrida presenta dunque una combinazione di tattiche irregolari, terrorismo e attività criminali. La conflittualità contemporanea non può quindi essere analizzata in termini dicotomici (terrorismo sì/no), ma presenta caratteristiche più sfumate che fanno perdere la percezione dei confini tra le diverse forme di conflitto e le loro caratteristiche.

Questa “confusione”, che è un tratto tipico di ogni conflitto “irregolare” (1), è particolarmente evidente se ci si sofferma sulla categoria di nemico. Una categoria che è “necessaria” e univoca quando si parla di guerra “regolare”, ma che nel caso dei conflitti non istituzionalizzati e quindi anche della minaccia della guerra ibrida è decisamente più problematica. Come ha evidenziato Stefano Torelli, ricercatore ISPI, nel caso di Bruxelles non è nemmeno chiaro se il nemico sia interno o esterno. Un foreign fighter nato, cresciuto e radicalizzatosi a Bruxelles, ma addestratosi militarmente in Siria, che poi torna indietro per compiere operazioni offensive rappresenta infatti un “ibrido” difficilmente “etichettabile”. Difficile è anche identificarlo in quanto non indossa un’uniforme, né vive separato dalla popolazione civile, anzi è esattamente l’opposto.

Tornando all’argomento di apertura, oggi la conflittualità portata avanti da ISIS assume la forma di una guerra ibrida che mischia varie tipologie operative: il terrorismo è quindi solo uno dei possibili modi con cui ISIS può decidere di attaccare i propri nemici. Se esso viene scelto è perché è quello più semplice ed economico e permette di realizzare attacchi improvvisi lontano dal campo di battaglia principale, ovvero il Medio Oriente.

Ciò che è importante capire è che noi oggi chiamiamo “terrorismo” è in realtà uno strumento bellico offensivo di un progetto politico più ampio portato avanti da una organizzazione, ISIS, che non è un’organizzazione terroristica. Il terrorismo per definizione non controlla spazio politico, ma è la semplice espressione del massimo della sorpresa tattica (l’attacco terroristico inizia nel momento della deflagrazione dell’ordigno e al contempo termina con esso). Al contrario ISIS controlla ampie porzioni di territorio in quello che ormai viene chiamato comunemente “Siraq” e piccole aree in Libia e nel Sinai. In questi territori ISIS svolge molte delle funzioni amministrative tipiche degli Stati e ricava le risorse necessarie alla propria espansione. Può essere quindi definito un proto-stato che all’interno della propria area operativa conduce operazioni tatticamente simili alla guerriglia (impiegando anche armamenti militari “convenzionali”), mentre all’esterno preferisce ricorrere alla più “semplice” ed efficace tattica del terrorismo.

Semplificare il tutto parlando del solo terrorismo è un errore concettuale che rischia di portarci a riflettere nel modo sbagliato sulle minacce che abbiamo di fronte. Come sottolineato anche in un articolo di Giuseppe Russo successivo agli attacchi pariginiun articolo di Giuseppe Russo successivo agli attacchi parigini, rafforzare le misure antiterroristiche in Europa è un passo essenziale, ma se non si colpisce la fonte dell’ideologia, dei finanziamenti e dell’addestramento che ne è alla base, ovvero l’ISIS in Siraq e in Libia, la minaccia non potrà mai essere estinta e anzi rischia di radicalizzarsi ancora di più.

  1. Con il termine si fa riferimento alle molte definizioni di conflitto non istituzionalizzato fornite dalla letteratura specialistica (guerra irregolare, guerra asimmetrica, insorgenza, guerriglia ecc.) ma che qui possono essere considerati come sinonimi.