La Camera dei Deputati ha definitivamente approvato il disegno di legge che introduce nell’ordinamento italiano il cosiddetto reato di negazionismo. Provvedimento che molti ritengono non solo non necessario, ovvero inutile, ma persino pericoloso.

Su di un piano tecnico, l’introduzione del reato di negazionismo avviene mediante la modifica della legge 13 ottobre 1975, n. 654 (Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966), inserendo un nuovo articolo, l’art. 3 bis, col quale il Legislatore intende punire con la reclusione da 2 a 6 anni tutti quei casi in cui la propaganda, l'istigazione e l'incitamento – già oggetto della citata legge - siano commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, e si fondino "in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra" come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale (art. 6, crimine di genocidio; art. 7, crimini contro l'umanità; art. 8, crimini di guerra), ratificato dall'Italia con la legge n. 232 del 1989. Questa, in termini cronachistici, la notizia. Se si passa ad un suo esame critico emergono plurime ragioni di contrarietà.

Su di un piano tecnico penale la fattispecie si caratterizza per un ampio margine di indeterminatezza della condotta, con l’evidente e concreto rischio di mancare di quel requisito della materialità della condotta, che costituisce presupposto indefettibile di qualsiasi diritto penale moderno e garantista. Infatti, non è facile individuare i casi che possano costituire quel concreto pericolo di diffusione della propaganda, dell’istigazione e dell’incitamento. Inoltre, la legge, sempre su di un piano tecnico, assimila tre condotte, appunto: la propaganda, l’istigazione e l’incitamento, che sono oggettivamente difficilmente distinguibili, ma che si caratterizzano prevalentemente per l’elemento soggettivo del responsabile della condotta. E si dovrebbe sapere che nulla è più difficile, in sede processuale, che accertare l’elemento soggettivo di un reato. Infine, la fattispecie viene costruita come reato di pericolo: anche questa scelta di politica del diritto non è irrilevante, posto che i reati di pericolo sono, sempre da una prospettiva garantista, i reati più difficili da individuare non fosse altro perché la condotta penalmente rilevante viene anticipata rispetto all’evento.

Queste le minime osservazioni tecnico-giuridiche che possono essere avanzate ad una prima lettura. Minime perché resto fedele all’antico principio per cui sutor ne supra credidam e lascio spazio a chi, da penalista, ha maggior sensibilità e strumenti di analisi rispetto a me. Quello che invece deve essere affermato è un diverso, e più ampio, motivo di contrarietà rispetto a tale legge. Motivo di contrarietà che riguarda l’opportunità di sanzionare penalmente condotte che attengono, piaccia o non piaccia, alla manifestazione del pensiero e quindi alla sua libertà di espressione. Nell’affermare ciò sono pienamente consapevole che, quando si cerca di sancire un principio, tale impresa risulta all’apparenza ancor più ardua quando per difenderlo si rischia di dover prendere le difese, à la Walter Block, degli indifendibili. Ma questa difficoltà non può essere un ostacolo, anzi, è la conferma dell’utilità del paradosso.

La legge appena approvata dimostra una certa confusione del Legislatore, e forse anche la sua propensione a dare risposte normative a problemi o questioni di cui non dovrebbe occuparsi. Una sorta di horror vacui davanti a cui il Legislatore, massimamente quello italiano, pare sistematicamente cadere nel tentativo di incontrare la sensibilità dell’opinione pubblica, o di una parte di essa. Dando poi costanti esempi di quella che è stata definita dal Fiandaca “la funzione simbolico-espressiva della normazione penale”, ovvero la tendenza a rispondere a fatti di cronaca o attualità emanando un qualche provvedimento normativo. Provvedimento che, il più delle volte, risulta non necessario, ovvero inutile. In questo caso, persino pericoloso.

Come detto, però, la scelta del Legislatore è anche la triste conferma che l’Italia è afflitta da uno stato confusionale profondo e dannoso. Meglio si direbbe, che ad esserne afflitti sono in primis i politici, che utilizzano strumenti sbagliati per necessità o questioni che poco o punto dovrebbero affaccendare il Legislatore. Purtroppo, però, fino a quanto l’efficienza di un Parlamento sarà misurata dalla stampa con il numero dei provvedimenti emanati, non v’è speranza di guarigione.

La confusione è poi massima, pare di capire, quando si debbano maneggiare i diversi gradi di giudizio: quello storico, quello politico, quello giudiziario, quello morale. A poco servirebbe forse invocare la crociana filosofia dei distinti: la società di massa, e la sua cultura di massa, hanno presto gettato, in senso liberatorio, queste anticaglie all’ammasso. Ciò nonostante, esprimere un giudizio storico sulle aberrazioni compiute dal nazismo, dal fascismo, dal comunismo o da qualche altra satrapia mediorientale, non dovrebbe richiedere il bollo tondo di una qualche sentenza penale contro questo o quel responsabile. Diversi, troppo diversi, sono gli strumenti, le finalità, i presupposti ed i limiti delle due forme di giudizio: sempre aperto, sempre revisionabile – con buona pace degli antirevisionisti in servizio permanente – quello storico; limitato, condizionato dalle prove ritualmente e legittimamente ammesse ed ammissibili - da valutarsi secondo il canone probatorio più severo dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” - quello penale.

Queste considerazioni, che mi paiono persino banali tanto da stingere nel reame dell’ovvietà, non devono, però, esser ritenute tali dai più. E mi costringono a scrivere quantomeno per testimoniare che si può essere fieri avversari delle idiozie di una certa storiografia – quella degli Irving che negano l’olocausto, o quella degli ingenui minimizzatori di altre brutalità commesse nel nome della Storia o della Giustizia – pur restando contrari ad iniziative legislative come quella appena approvata dal Parlamento italiano.

In poco più di una generazione si è passati dal sessantottardo “vietato vietare” al post-moderno “vietato negare”, con la sensazione che molti propugnatori del primo slogan liberatorio siedano oggi nelle foderate schiere dei difensori della Storia di Stato, che di quest’ultimo utilizza il monopolio della forza per guarnire il monopolio della Storia. Anche questa apparente assurdità non dovrebbe meravigliare: chi ha osservato seriamente le dinamiche proprie di qualsiasi moto rivoluzionario, primo tra tutti Tocqueville, ha sempre ammonito contro l’illusione del cambiamento radicale, ridottasi spesso, se non sempre, nella mera sostituzione di chi esercita il potere, siano esse una classe, un nuova forma di governo, un nuovo Principe. Insomma, la rivoluzione come strumento retorico per l’occupazione delle casematte del potere, culturale in primis, e di conserva politica.

Quello che preoccupa, e che spero debba preoccupare le schiere degli amanti della libertà, è che il Legislatore italiano si dimostri così insensibile all’essenza stessa di quella che Kenneth Minogue chiama l’architrave della cultura occidentale, ovvero la libertà morale.

La libertà, per l’appunto, di scegliere senza condizionamenti il proprio atteggiamento, le proprie convinzioni, manifestando queste ultime persino in pubblico ed anche quando sono o minoritarie oppure semplicemente sciocche e superficiali.

Negare l’evidenza, come gli storici negazionisti fanno, è un assurdo storico: contro di loro vi sono le evidenze irrefutabili, incontrovertibili, univoche nella loro drammaticità. Gli storici negazionisti e i drappelli di nostalgici culturalmente sprovveduti che ne mutuano i giudizi per fini politici raccapriccianti non meritano altra sanzione che quella propria del giudizio storico e morale. Sanzione i cui unici atti dovrebbero essere le pubblicazioni consegnate alle biblioteche, gli atti di convegni che ribadiscano ciò che la Storia, quella seria, si è presa la premura di insegnare. Oppure, e sul piano morale, la riaffermazione dei principi costitutivi di una società aperta, ovvero il pluralismo e libertà anche di dire sciocchezze, fintantoché queste sciocchezze non superino la soglia delle mere manifestazioni di pensiero.

Il modello alternativo, ed al quale l’iniziativa legislativa qui in commento pare indubitabilmente rivolgersi, è il modello della nazionalizzazione, della statizzazione del giudizio storico e morale, che viene cristallizzato, una volta per tutte, nella verità di Stato, suggellata e sanzionata in Gazzetta Ufficiale, e nel comportamento di Stato, l’unico moralmente accettabile in un consesso civile.

Uno Stato, quindi, che diventa allo stesso tempo storico e pedagogo, tutore incontestabile, salvo intervento delle procure della Repubblica e dei Carabinieri, di ciò che è vero, storicamente, e giusto, moralmente. Uno Stato talmente convinto di sé e dei suoi poteri da illudersi di poter cancellare la superficialità, l’ignoranza, la volgarità, dalla società, come se si trattasse di una malattia da curare.

Un tale atteggiamento, o meglio: una tale presunzione, è contraria all’essenza non solo della tradizione liberale, ma è contraria a quel concetto ancor più ampio che possiamo definire tradizione occidentale. Questa si fonda sulla difesa non delle opinioni dei più, della maggioranza, bensì sulla difesa del dissenso, anche quando questo sia palesemente non condivisibile. Finché vi sarà una persona che dissente rispetto a tutte le altre, la nostra civiltà deve difendere il diritto di quella dissenziente di affermare liberamente il proprio pensiero. Anche quando questo sia odioso, offensivo, figlio di pregiudizi ovvero diretto discendente di una interessata e colpevole ignoranza. Una società aperta e pluralista può e deve contare sulla propria capacità di ribadire la bontà e la fondatezza del giudizio storico e deve evitare, pena la negazione di sé stessa, di cercare di trovare ripiego nel monopolio della forza tipico del potere statale.

Il diritto si occupa di atti e comportamenti nocivi, ma non deve occuparsi di pensieri, per quanto offensivi essi possano essere anche di realtà storiche che nessuno ha mai contestato o negato. Luigi Pareyson, nella sua tragica Filosofia della libertà ricordava come "nessuno vorrà seriamente negare che è meglio il male libero che il bene imposto. Il bene imposto reca in sé la propria negazione, perché vero bene è solo quello che si fa liberamente, potendo fare il male; mentre il male libero ha in sé il proprio correttivo, che è la libertà stessa". Ecco appunto, l’essenza della filosofia della libertà.

Quella libertà che Ronald Dworkin riconosceva, nella discussione sul se sanzionare normativamente il cosiddetto “hate speech”, anche alle opinioni più volgari e retrive. Non perché, ovviamente, si debbano condividere queste opinioni, ma perché – diceva Dworkin – in un regime democratico che faccia proprio il principio costitutivo per cui ciascuna opinione individuale è importante (altrimenti si nega in origine l’essenza stessa della democrazia), non può che esser ammessa la piena libertà di manifestazione di quella opinione individuale. Qualsiasi essa sia. Se si abbandona tale linea si abbandono la stessa democrazia liberale.

E si badi, a me pare che soprattutto di tale ultimo argomento il Legislatore si sia a tal punto reso conto da giungere, recentemente, ad abolire la perseguibilità penale del reato di ingiuria. Ingiuria il cui bene tutela era, nelle codificazioni ottocentesche, l’onore ed il decoro dell’individuo. Onore e decoro che la società di massa democratica hanno indubitabilmente revisionato anche grazie alla diffusione dei nuovi modelli di comunicazione (primo tra tutti internet e poi i social media) che hanno elevato al rango di opinionisti anche coloro i quali erano soliti esser destinata a meramente ricevere, e magari fraintendere, le opinioni altrui.

Preso atto di ciò – perché da una prospettiva liberale il diritto segue la società e si valuta l’uomo per quello che è e non per quello che vorremo che fosse – il Legislatore, nel bilanciare i due beni confliggenti dell’onore ottocentesco e dalla libertà di espressione dei tempi correnti, ha fatto prevalere quest’ultima. Ma si sa, oramai per esperienza, che la coerenza del Legislatore non è più postulabile, come amavano fare – sbagliando – i positivisti del ventesimo secolo.

Per concludere, quindi, non resta che ribadire le ragioni che avrebbero dovuto far astenere il Legislatore da un intervento normativo simbolico, ma pericoloso e sbagliato. Ma soprattutto rischioso, non solo per le sue conseguenze applicative, ma anche perché testimone dell’esser andati completamente dimentichi dell’avvertimento del Beckett di Murder in The Cathedral di Thomas Stearns Eliot, per il quale il peggior tradimento era rappresentato dal fare la cosa giusta per il motivo sbagliato.

 

Riferimenti

Vietato Negare! Contro il reato di negazionismo, http://www.linkiesta.it/blogs/la-pelle-di-zigrino#ixzz2i4KuBCaD