Negli Stati Uniti l’esito del referendum britannico ha dato nuova linfa alle istanze indipendentiste di due grandi stati, il Texas e la California, rafforzando altresì il movimento populista e anti-establishment incarnato da Donald Trump.

Non sono pochi coloro che negli Stati Uniti hanno applaudito la decisione di una maggioranza degli elettori britannici di ritirarsi dall’Europa Unita. Del resto, gli Americani furono tra i primi a imbarcarsi in una secessione che prese le mosse dalla Carolina del Sud e che nel Giugno 1861 portò alla scissione di undici stati dall’Unione confluiti in una confederazione ed alla successiva calamità della Guerra tra gli Stati, disgraziatamente nota come Guerra Civile. Gli Americani hanno appena finito di celebrare il 240esimo anniversario di una precedente, storica secessione, quella dalla Gran Bretagna, ma il bacillo della secessione è ancora vivo negli Stati Uniti d’America, come dimostrano i movimenti indipendentisti di due grandi stati, il Texas e la California. Dopo il successo di Brexit, anzi, i Texani parlano apertamente di Texit, niente che di meno l’uscita del Texas dagli USA. Il Texas fu il 28esimo stato ad aderire all’unione di stati che andò formandosi dopo l’indipendenza delle tredici ex colonie britanniche. Era il 1845 ma i Texani avevano già assaporato nove anni di indipendenza politica dopo essersi sbarazzati del dominio messicano. Il presidente della TNM (Texas Nationalist Movement), Daniel Miller, ha giustificato la causa di Texit con un richiamo a Brexit: “Nel voto per Brexit – ha detto – il popolo del Regno Unito era mosso dal convincimento di pagare di più all’Europa di quanto percepisse dall’Unione. Questo è esattamente il caso qui nel Texas”. Anche nel Texas, sostiene Miller, è giunta l’ora di tenere un referendum per l’uscita dall’Unione dichiarando completa indipendenza dalla disordinata espansione della burocrazia federale. Con la presente economia valutata attorno un trilione 600 milioni di dollari, il Texas si ritroverebbe tra le dieci più grandi economie del mondo.

Ma c’è un altro stato – il trentunesimo, per la precisione, ammesso nell’Unione nel 1850 - che si piazzerebbe addirittura al sesto posto nella graduatoria delle economie più forti: la California. Anche il presidente della Yes, California, l’italo-americano Louis J. Marinelli, invoca Calexit, una secessione tipo Brexit, accampando le stesse ragioni del suo correligionario texano: “Noi della California sovvenzioniamo gli altri stati dell’Unione. Il risultato è che perdiamo decine, e qualche volta centinaia di miliardi di dollari ogni anno a beneficio di altri stati”. La California, insomma, avrebbe molti più miliardi di dollari a disposizione per la sanità e l’istruzione se fosse indipendente. È un argomento che fa una certa presa su molti Americani, consapevoli del fatto che, ad onta della loro posizione predominante nel mondo, gli Stati Uniti occupano posizioni assolutamente imbarazzanti nelle graduatorie internazionali di assistenza medica, di servizi sociali, di istruzione media e di altri indici che misurano quella ricerca della felicità che era tanto cara ai Padri Fondatori.

Di fatto, un Brexit è praticamente impossibile in America in quanto uno stato non può legalmente costringere gli Stati Uniti a concedere la secessione in caso di rifiuto del potere federale. Teoricamente, il distacco sarebbe possibile se lo stato e il potere federale fossero d’accordo, ma anche in questo caso sarebbe necessario un emendamento costituzionale di difficile attuazione ed in ogni caso un atto del Congresso. È facilmente prevedibile che il resto degli stati non lo consentirebbe. Del resto, gli abitanti del Texas e della California sono fieri di essere cittadini degli Stati Uniti d’America, indipendentemente da quel che pensano dell’invadenza della burocrazia federale.

Una considerazione più seria delle ripercussioni oltreoceano non può comunque ignorare che il Brexit britannico ha trovato in America una certo eco che riflette i sentimenti populisti e nazionalisti che sono prevalsi in Inghilterra ma anche i proclami di Donald Trump all’insegna di “riprendersi il Paese”. La destra americana ha raccolto frecce per il suo arco che prende di mira la politica immigratoria di Washington ed in modo speciale il trattamento dei rifugiati e la disoccupazione. Il movimento populista e anti-establishment che ha trovato in Trump il suo profeta esulta perché apparentemente trova conferma in Europa dell’inevitabilità della protesta contro lo statismo che cerca di imporre indirizzi sociali ed economici contrari al senso di identità tanto degli Inglesi quanto degli Americani. Ma vi è un altro fronte di protesta innescato da Brexit che Trump cerca di sfruttare in questi giorni, la rivolta contro la elite globale che a suo dire ha propagato la globalizzazione ai danni della classe media del mondo intero. In pratica, Donald Trump predica l’indipendenza da “potenti corporations, elites mediatiche e dinastie politiche”, una chiara condanna della sua avversaria di Novembre, Hillary Clinton. La retorica contro quella che Trump chiama “rigged economy”, l’economia manipolata, lo pone in rotta di collisione con la Camera di Commercio e gli interessi economici e finanziari alleati del partito repubblicano, ma certamente risulta gradita nella Rust Belt americana, quella fascia di fabbriche “arrugginite” nell’Ohio, Pennsylvania e Michigan, tre stati che tradizionalmente decidono l’esito delle elezioni presidenziali. Il tutto è condito dalla feroce opposizione ad accordi e trattati commerciali che Trump bolla come deleteri agli interessi dell’America, un altro forte elemento di contrasto con il partito repubblicano, da sempre favorevole al libero commercio.

Una prevedibile conseguenza dell’opposizione a trattati commerciali che Trump giudica favorevoli alla Cina ed altri Paesi concorrenti dell’America è l’accusa di “isolazionismo”. È un’accusa che non turba Trump ma è interessante notare che secondo gli esegeti della destra americana, tra i quali figura il columnist George Will, sarebbero gli intellettuali della sinistra a proclamare che il movimento pro-Brexit altro non è che una forma di isolazionismo. Will è tra coloro che esultano definendo Brexit una “rinascita del senso di nazione” tale da condurre alla restaurazione dell’autogoverno attraverso il recupero della sovranità nazionale. Se questi pensatori della destra americana trovano conforto in Brexit in quanto scaturiente, a loro modo di vedere, da una crisi esistenziale dell’Unione Europea, non meno sconcertante è l’ostinazione di certa stampa corporativa in America nell’attribuire la causa di Brexit quasi esclusivamente al rigetto dell’immigrazione e nel senso lato alla xenofobia e razzismo. Dinanzi a questa forzatura, una visione più equilibrata della complessità del problema alla base di Brexit non può escludere il peso dell’eccessiva globalizzazione, della perdita di posti di lavoro e della riduzione di paghe e benefici che hanno sensibilmente danneggiato la classe media britannica.

In conclusione, se è scontato che l’esito del referendum britannico incoraggerà i populisti di ogni Paese europeo, e per affinità ideologica i sostenitori di Trump sull’altra sponda dell’Atlantico, sui governi associati dalla NATO e da investimenti di lunga data nell’architettura economica e commerciale della comunità atlantica incombe il dovere di adottare urgentemente misure atte a ripristinare un assetto di stabilità dopo lo sconquasso made in Britain. A tale riguardo, non aiuta segnalare, come fanno disinvoltamente certi ambienti della sinistra americana, che in fondo l’Unione Europea è un’istituzione “inerentemente anti-democratica” in quanto gli elettori europei votano soltanto per il Parlamento Europeo mentre il potere risiede nel Consiglio Europeo e nella Commissione, i cui membri non sono eletti. Di fatto, uno degli aspetti più equivoci della reazione americana a Brexit è quello di trovare accomunati gli oppositori di destra e sinistra alla globalizzazione e al neo-liberalismo. Quanto al futuro dell’Inghilterra, è pressoché unanime in America la convinzione che la nazione sopravvivrà alle conseguenze economiche di Brexit, anche perché potrà sempre contare su quel che resta, e non è poco, della sua “relazione speciale” con gli Stati Uniti. Per l’Europa il pronostico è azzardato ma non preoccupa eccessivamente gli Americani, ignari in generale delle sfide populiste che il Vecchio Continente è costretto ad affrontare. In questo scorcio di secolo, la verità è che gli Americani non sono né isolazionisti né internazionalisti. Il difficile sta nel capire da che parte stia Donald Trump, ma non sarà questa valutazione ad influenzare la scelta degli Americani nel segreto dell’urna.