Le moderne democrazie sono sostanzialmente impreparate a fronteggiare le minacce del terrorismo e dell’estremismo. Per garantire la sicurezza, dovremo allora forse rinunciare a un po’ di trasparenza negli atti del governo e persino a qualche garanzia costituzionale.

Nella tradizione di pensiero liberaldemocratico, lo stato dovrebbe essere una “casa di vetro”, priva di dinamiche politiche occulte: il regno del potere visibile, come diceva Bobbio. Gli atti dei governanti dovrebbero essere conformi alla legge e perfettamente trasparenti. I disaccordi fra cittadini andrebbero risolti tramite un confronto pacifico e aperto, imperniato – per dirla con Kant - sulla “più inoffensiva di tutte le libertà, quella di fare un uso pubblico della ragione in tutti i campi”. Lo spazio pubblico dovrebbe essere caratterizzato da “pluralismo ragionevole”, secondo la nota espressione di Rawls. Un confronto continuo fra punti di vista diversi, sul piano dei giudizi di fatto e soprattutto di valore; ma un confronto basato su ragioni, capace di mettere fra parentesi convinzioni personali non negoziabili, non presentabili tramite argomenti comprensibili e “ricevibili” da tutti.

Nel mondo reale le cose non stanno proprio così. Accanto al potere visibile operano ancora molti poteri nascosti (organizzazioni criminali, mafie, società segrete di varia natura). La democrazia continua ad essere minacciata da posizioni e attori “irragionevoli”, da nemici interni ed esterni che spesso attentano alla sua sicurezza. Pensiamo al recente colpo di stato in Turchia o ai feroci attacchi terroristici di matrice islamica che stanno insanguinando molte città europee.

Il fatto è che la pubblicità del potere, la trasparenza del governo, il rispetto della privacy e delle libertà individuali, il confronto pacato fra punti di vista sono ideali molto esigenti: presuppongono una comunità politica composta da persone civili e “ragionevoli”, nel senso kantiano e rawlsiano. Negli ultimi due secoli, lo sviluppo delle istituzioni liberaldemocratiche ha consentito all’ Europa, al Nord America e a poche altre regioni di fare molti passi sulla strada della ragionevolezza. Ma i nemici della democrazia non sono stati sconfitti. E oggi il fanatismo islamico ha lanciato alle nostre case di vetro sfide di una intensità e qualità storicamente inedite. Dobbiamo fronteggiare un insieme di arcana seditionis che intrecciano il versante interno con quello esterno e ci espongono a una vera e propria spirale di minacce invisibili, con effetti incalcolabili.

Il terrorismo è uno dei poteri occulti più temibili e ricorrenti nella storia. Come sosteneva Bakunin, il terrorismo è una strategia di rovesciamento dell’ordine politico, tramite atti capaci di attivare “una dittatura anonima e collettiva di amici della liberazione, uniti in una società segreta e agenti per un fine comune”.

Come il terrorismo tradizionale, il fanatismo islamico colpisce con attentati “esemplari”, per generare paura e al tempo stesso reclutare nuovi adepti. Sfrutta a proprio vantaggio l’apertura delle nostre società, i limiti procedurali che imbrigliano i poteri pubblici visibili, compresi quelli preposti alla sicurezza. A differenza degli estremismi rivoluzionari o nazionalisti (pensiamo a quello basco o irlandese), il terrore islamico non persegue riconoscibili obiettivi politici o territoriali, ma punta allo scontro di civiltà. Il Jihad ha un fine “assoluto” (il trionfo della religione di Allah), tutti i mezzi sono leciti, indipendentemente dalle loro conseguenze, non c’è freno morale che tenga. Ogni aspetto, ogni occupante delle case di vetro in cui abitiamo può diventare un bersaglio esemplare: la redazione di un giornale, un sacerdote che celebra messa, un centro commerciale, i giovani che ballano in discoteca. Come difenderci? Nel breve periodo, l’unica arma è l’intelligence, il ricorso a un contro-potere nascosto. Riuscire a prevenire gli attacchi tramite i servizi segreti e le infiltrazioni è un risultato importantissimo. Ma non è molto rassicurante. Spesso l’opinione pubblica non se ne accorge, e non può esserne neppure informata per non compromettere la segretezza delle operazioni.

Nell’era della rete, è emersa poi la minaccia di un potere “onniveggente”, basato sull’uso dei computer. Quell’incubo è diventato realtà in molti contesti. Pensiamo, di nuovo, all’ondata di epurazioni in Turchia dopo il fallito golpe. Un leader che credevamo al di sopra di soglie di decenza democratica – Erdogan -  in realtà già disponeva di archivi informatizzati pronti ad essere usati a fini repressivi. Internet è diventata uno strumento che ha accresciuto l’efficienza e la trasparenza di governo e amministrazione, ma che ha anche moltiplicato i margini d’azione di tutte le “dittature invisibili” e oggi, ahimè, del fanatismo jihadista.  

Scomparsi dai trattati di scienza politica, gli arcana seditionis stanno tornando ad essere un pericolo più dirompente della stessa guerra “guerreggiata”. Le nostre democrazie non sono adeguatamente preparate. Per garantire la sicurezza, è probabile che dovremo rinunciare a un po’ di trasparenza e forse persino a qualche garanzia costituzionale. Ciò è già una realtà in Francia. Sulla scia degli attentati del Bataclan, il governo di Parigi ha infatti proclamato lo stato di emergenza, tuttora in vigore. Come previsto dalla legge istitutiva del 1955, esso “conferisce alle autorità del territorio … dei poteri di polizia eccezionali che riguardano la regolamentazione della libertà di movimento e di soggiorno delle persone, la possibile chiusura dei luoghi pubblici e il sequestro delle armi”. L’attuale stato di emergenza (che durerà fino al 2017) prevede inoltre la possibilità di perquisizioni e arresti senza l’autorizzazione preventiva e ispezioni di computer e cellulari. Sono in molti ad aver già parlato, per il caso francese, dell’instaurazione del “modello Israele”.

Dovremo imparare inoltre a condannare e isolare i fanatici e i violenti, senza se e senza ma. Rawls era ben consapevole che le democrazie del mondo reale avrebbero continuato a registrare la presenza di cittadini “irragionevoli”. Ma non ha affrontato la questione dal punto di vista morale, si è limitato a dire che gli irragionevoli vanno “contenuti”. Sì, ma come, quanto, con che mezzi? Anche con la forza? È lecito, da un punto di vista liberale, entrare nelle moschee situate in Europa e bandire chi predica violenza? È lecito vietare comportamenti e pratiche che, seppure non esplicitamente collegate alla violenza, costituiscono l’humus in cui la cultura della violenza attecchisce? Sono domande delicate, che riguardano il cuore del principio liberale di tolleranza. Qui occorre ricordare che il liberalismo non è solo un insieme di principi, ma è anche un metodo per gestire i conflitti fra principi. Sempre Rawls ha chiamato questo metodo “equilibrio riflessivo”: si parte da un principio che sembra “assoluto” (la tolleranza, ad esempio), lo si contestualizza, si osservano e si dibattono pubblicamente le implicazioni della sua attuazione, soprattutto le eventuali contraddizioni che l’attuazione fa emergere rispetto ad altri principi (la sicurezza personale, la stabilità dell’ordine politico liberal-democratco) e si pondera  il principio di partenza in modo da renderlo compatibile con altri principi considerati rilevanti. Non siamo più abituati a seguire questo metodo in relazione ai valori cardine della democrazia liberale (libertà, tolleranza, stato di diritto), così come non siamo abituati ad avere a che fare con minacce dirette alla nostra vita, alla nostra civiltà. Dobbiamo abituarci alla dura realtà del nuovo contesto e imparare ad usare meglio il metodo dell’equilibrio riflessivo.

È molto probabile che la dura realtà richieda la disponibilità ad un maggior uso delle risorse coercitive:  bisognerà in altre parole accettare un maggior ricorso alla forza. Come ha detto Michael Walzer in una recente intervista al Corriere, si tratta di sfide delicate per la cultura occidentale, soprattutto a sinistra. Ma non possiamo stare fermi di fronte a poteri omicidi che si nascondono fra di noi. Se ci stanno a cuore gli ideali democratici, dobbiamo difenderli prendendo atto della realtà che ci circonda. Con la sua spiacevole e persistente dose di “irragionevolezza” e fanatismo, pronto all’uso sfrenato della violenza.

L’Unione Europea può e deve essere in prima linea per affrontare la sfida del nuovo terrorismo e dei suoi minacciosi poteri invisibili. Dal 2014 ad aggi i Paesi Membri hanno registrato già 30 attacchi, di cui 14 nell’ultimo anno. Più di seicento civili hanno perduto la vita. Come ha osservato recentemente Juncker, ad essere in gioco è lo European way of life nel suo complesso. Concretamente, cosa può fare la UE? Innanzitutto, controllare meglio i confini, tenendo buona traccia di chiunque entri ed esca dal territorio UE. Sono in discussione due utili misure: l’istituzione di una European Border and Coast Guard a fianco di Frontex e di un European Travel Information System, che consenta di identificare chi viaggia verso la UE prima ancora che parta. Ma occorre fare di più. Innanzitutto rafforzando Europol, dotandola di maggiori risorse, un più ampio accessi ai dati e una forte unità di contro-terrorismo (quella che c’è ha meno di 60 agenti). E poi costruendo una credibile difesa integrata UE, complementare rispetto alla NATO. Negli ultimi due decenni, l’Europa si è cullata nell’illusione del soft power. Non è che la moral suasion, la mediazione, la diplomazia culturale non servano (se ben impostate). Il fatto è che non bastano più. Così come non basta più l’azione autonoma di questo o quel paese. Coi loro arcana seditionis, i nuovi poteri invisibili vogliono dividerci, combatterci anche attraverso la frammentazione della nostra Unione. E questa è la trappola più insidiosa, nella quale non possiamo permetterci di cadere.