Lunedì 26 settembre si terrà il primo dei tre dibattiti presidenziali americani. Dopo l’impennata nei sondaggi di Donald Trump seguita alla convention di Cleveland e dopo il forte recupero di Hillary Clinton dopo la convention di Philadelphia i due candidati sono ora quasi alla pari.

Il vantaggio di Hillary, che secondo la media delle rilevazioni si assesta intorno al due per cento, è minore di quello che solo poco tempo fa ci si poteva aspettare. Certo, la combinazione dei voti elettorali nei vari stati rende comunque difficile un successo di Trump, come ricorda il guru Nate Silver: ai democratici, forti di una base di 242 voti sicuri, per raggiungere la soglia magica dei 270 basta “tenere” la Pennsylvania e poi conquistare una combinazione di due degli stati in bilico, come Virginia e Colorado (che votano prevalentemente dem), oppure (ma lì la situazione è più favorevole al GOP) conquistare la sola Florida e il suo ricco bottino di 29 voti. Al di là dei calcoli strategici, che pure sono importanti - Barack Obama conquistò la riconferma nel 2012 anche grazie a un calcolo quasi millimetrico delle contee in bilico, in Ohio, Florida e Virginia, tra le poche a non cedere voti ai repubblicani proprio perché considerate dai democratici obiettivi fondamentali - la campagna elettorale si fa sui grandi messaggi con i quali coinvolgere, entusiasmare, attrarre gli elettori indecisi. E fino a qui il sentimento prevalente di entrambi i contendenti, pur così diversi, è uno, sopra agli altri. La paura.

Come nota sul Guardian Kate Aronoff, dalla convention democratica in avanti, Clinton e Trump hanno spacciato ciascuno la propria politica della paura. Hillary: la paura di un’ascesa della destra estrema, contro la quale promuovere un rassemblement dei responsabili e dei democratici (di qui gli appelli al voto di Paul Krugman, che da mesi ripete ai progressisti che quello della Clinton è l’unico programma economico praticabile, di qui la rivolta di molti intellettuali della sinistra contro il loro stesso giornale, il New York Times, accusato di non indignarsi abbastanza per le uscite di Trump). Donald: la paura degli immigrati e della prospettiva di una democrazia realmente multirazziale e multiculturale. Tanto nel 2012 Obama aveva vinto su una piattaforma propositiva (“fight for middle class” e “forward”, avanti sulla strada della riforma sanitaria e nel consolidamento della ripresa), quanto il tono delle presidenziali 2016 è prevalentemente negativo, da stato da assedio.

Il dibattito di lunedì può cambiare questa dinamica, e c’è chi, come James Fallows su The Atlantic, ricorda che sarà la prima volta che Trump si troverà a sostenere i tempi lunghi (tra uno e due minuti) richiesti per ogni risposta nei dibattiti presidenziali, molto diversi dai veloci scambi delle primarie, in cui tutti si danno sopra con la voce e vince chi si concentra su poche frasi ad effetto. Questa volta dovrà spiegare, motivare, persuadere, in forma assai più monologica, di fronte al pericoloso silenzio della platea. E si confronterà con l’oratoria consolidata di Hillary, che magari non brilla per l’afflato retorico ed evocativo come Obama o per la simpatia amichevole di Bill, ma che è forte in competenza, esperienza, temperamento.

Comunque vada il dibattito, l’impressione è che al paniere elettorale di Clinton manchi qualche categoria di elettori di troppo. Ce n’è una, in particolare, su cui si sono fermati a riflettere in questi giorni giornalisti e sociologi: quella che in America è chiamata la generazione dei millennials, ovvero di coloro che sono nati grosso modo nell’ultimo ventennio del secolo scorso, e che ora corrispondono quindi alla fascia di elettori tra i sedici e i trentacinque anni. L’aut-aut clintoniano - dopo di me, il diluvio - costruito per spaventare gli elettori rispetto alla minaccia di Trump potrebbe non bastare per portare alle urne questo tipo di elettori, che chiedono qualcosa di più. È la loro generazione ad avere spostato significativamente a sinistra il Partito democratico rispetto al centrismo degli anni novanta, ad avere animato Occupy Wall Street negli anni della crisi finanziaria, ad avere portato nel dibattito politico americano temi quali l’ineguaglianza, il salario minimo, il riscaldamento globale, la diversità sociale, sessuale, religiosa, razziale. Trovando in Sanders il proprio ideale candidato e portavoce, con una curiosa saldatura transgenerazionale: alle primarie, i voti dei millennials per i senatore socialista del Vermont sono stati superiori a quelli, cumulati, per Trump e per Hillary. C’è un’inaspettata ortodossia, una rigidità ideologica nell’ultima generazione al voto, spiega Ross Douthat sul New York Times: per molti millennials le idee della destra americana sono così aliene e repellenti, e la fedeltà al credo progressista così pervasiva e priva di dubbi, che sostenere un candidato come la Clinton sembra a molti di loro una ingiustificata forma di compromesso. Mentre i rimanenti millennials, sull’altro versante, sono conquistati da una figura eclettica e non incasellabile nel conservatorismo tradizionale come Donald Trump, che trovano persino divertente e quasi attraente.

Parlando lunedì a un rally elettorale in Pennsylvania Hillary ha mostrato che la sua campagna - nella quale ha reclutato l’innovativa ditta newyorkese di marketing e comunicazione Droga5, specializzata nella ideazione di campagne creative rivolte a un pubblico giovane - ha capito il problema, e si muove risolutamente nella direzione di questa fascia di elettori. La platea era non a caso quella della Temple University, e lì la Clinton ha parlato di rette universitarie gratuite per i meno abbienti, stage lavorativi pagati, diversità sociale e società aperta. Quanto questi sforzi comunicativi ed empatici saranno retribuiti, e se i millennials sapranno reagire all’imperativo della paura, che mostra il compromesso e la mediazione clintoniana come unica soluzione di fronte al nemico più grande - Trump - anziché disperdere il proprio voto nei candidati terzi (la verde Jill Stein, il libertario Gary Johnson che in un dibattito televisivo ha mostrato di non sapere neanche cosa fosse Aleppo), è materia che nutrirà le prossime concitate, decisive settimane, verso il voto dell’otto novembre, ormai così vicino.