Da qualche anno alcuni propongono come soluzione dei problemi economici dell'Italia il ritorno della spesa pubblica in forte deficit e della lira. La spesa pubblica è oggi sotto i vincoli degli accordi fra i Paesi che formano l'euro gruppo, e dunque non può essere usata fino in fondo per creare domanda aggiuntiva, così come l'euro impedisce l'uso della svalutazione della moneta nazionale come strumento per il rilancio.

 

Alcuni ricordano i tempi della spesa pubblica in deficit e della lira debole come un periodo in cui le cose funzionavano. Se le cose fossero davvero andate così bene, perché mai fu deciso di cambiare, vincolando la spesa ed abbracciando una moneta di cui non si aveva il controllo? La decisione di frenare la spesa pubblica (che fino ad allora era finanziata anche con l'emissione di moneta) fu presa agli inizi degli anni Ottanta, e la decisione di abbracciare la moneta unica fu definitivamente presa a metà degli anni Novanta.

Tutti quelli che sono stati al Governo da allora fino ad oggi – e sono quasi quattro decenni dal “divorzio della Banca d'Italia dal Tesoro” e due decenni dalla decisione di abbracciare l'euro - non hanno messo in discussione questa “grande decisione”.

L'Italia allora aveva allora una spesa pubblica fuori controllo, così come aveva delle relazioni industriali che erano oliate dalle molte svalutazioni. Non avendo il sistema politico italiano la forza per frenare la spesa e normalizzare le relazioni industriali, si pensò che la soluzione fosse quella di creare un vincolo esterno che agisse nella direzione voluta. Fu deciso di cedere sovranità quale strumento per uscire dall'angolo in cui si era finiti.

Il seguito della nota è diviso in tre parti. La prima descrive il mondo della sovranità. La seconda il mondo della cessione di sovranità. Nella terza si fanno delle considerazioni politiche.

1 – Il mondo della sovranità nazionale

In passato, le infrastrutture - telefonia, acciaio, autostrade, voli arei, finanziamenti a lungo termine erano offerte dallo Stato attraverso l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI). Era il lascito “dirigista” del Ventennio, o, se si preferisce, della svolta statalista ai tempi della grande crisi degli anni Trenta. In breve, lo stato offriva i “beni base”, ossia quelli che servivano per produrre i “beni finali”.

In breve. I Pisani aprivano gli alberghi e le pizzerie per i turisti, che arrivavano con Alitalia o con Autostrade a fotografare la Torre. Altri dirigevano le proprie imprese che usavano l'acciaio dall'Italsider. Altri ancora si finanziavano presso l'IMI. Infine, tutti potevano telefonare grazie alla SIP (in origine Società Idroelettrica Piemontese e qui si apre il capitolo della nazionalizzazione dell'energia elettrica, che ha dato luogo a all'ENEL, il gigante energetico parente dell'altro, l'ENI, nato nel Dopoguerra).

Fuori dal campo delle infrastrutture, perché l'IRI si era allargata nel secondo dopoguerra, i ristoratori pisani potevano pure comprare i pomodori dalla SME ed offrire i cioccolatini e i panettoni sempre della SME (in origine Società Meridionale Elettrica, di nuovo come il caso della SIP).

Per poi non dire di Mediobanca, impresa controllata dalle Banche di Interesse Nazionale (BIN), controllate dall'IRI da prima della Seconda Guerra, ma autonoma. Il mercato primario – quello dove le imprese si approvvigionano di obbligazioni ed azioni – passava quasi tutto attraverso Mediobanca, che, in questo modo, governava il sistema privato. Mediobanca collocava i titoli presso il pubblico attraverso gli sportelli delle BIN. Nel sistema le Assicurazioni Generali dovevano essere “tenute fuori”. La potenza di fuoco di Generali, infatti, era tale che avrebbe potuto alterarne gli equilibri comprando delle partecipazioni. Le Generali erano una specie di “grande Berta” che non doveva mai sparare.

Questo era il mondo della “sovranità”. Un mondo molto statalizzato. In questo mondo fu costruito negli anni Sessanta e Settanta lo stato sociale - ossia la sanità, la scuola e le pensioni – con le entrate che erano – a differenza degli altri Paesi che hanno costruito nello stesso periodo lo stato sociale - inferiori alle uscite. Da qui trae origine il gran debito pubblico dell'Italia.

Agli inizi degli anni Novanta si aveva così un'economia molto statalizzata con un gran debito pubblico. Da allora fino ad oggi abbiamo assistito ai sussulti di questo mondo. Abbiamo avuto le privatizzazioni, ma questo è un capitolo che richiede un'analisi molto lunga. Concentriamoci sulle variabili macro-economiche.

2 – Il mondo della cessione di sovranità nazionale

Il debito pubblico italiano fino agli anni Ottanta era detenuto dalle banche italiane. Era facilmente governabile, perché le banche erano in gran parte pubbliche. Poi, negli anni Novanta, il debito pubblico è passato nelle mani delle famiglie. Era di nuovo facilmente governabile, perché in cambio di rendimenti molto elevati, queste lo sottoscrivevano.

Si aveva così un meccanismo di consenso semplice. La politica governava il deficit e il debito prima attraverso le “sue” banche e poi attraverso gli alti rendimenti. In questo modo non si poteva formare un giudizio di merito sul debito italiano. Nel primo caso gli investitori erano “catturati”, nel secondo “sedotti”. In breve, il Principe non faticava per ricevere il consenso degli elettori, perché il debito crescente si sarebbe poi scaricato sui “non nati”, che - per definizione - non votano. (Si può dire la stessa cosa del sistema pensionistico che allora elargiva dei redditi superiori ai versamenti).

Arriva con gli anni Novanta il momento del “mercato” nella doppia direzione degli Italiani che possono investire all'estero, e dell'estero che può investire in Italia. I giudizi di merito si possono perciò formare: qual è il premio – il maggior rendimento richiesto - per detenere il debito italiano rispetto a quello tedesco? Il Principe deve ora – e a differenza di prima - convincere una platea piuttosto vasta che il suo debito è sottoscrivibile. Cambia così la natura del rapporto: nel primo caso il Principe non doveva convincere nessuno intorno alla tenuta del debito, nel secondo, invece, deve farlo: deve varare delle politiche che siano coerenti nel tempo.

Chi desidera il ritorno della spesa pubblica in deficit (finanziato con obbligazioni emesse in lire, o, addirittura, per alcuni con l'emissione anche di moneta) è infastidito dal controllo che l'industria finanziaria esercita indirettamente (attraverso il differenziale di rendimento: il famigerato spread) sulle politiche economiche, ed è anche infastidito dal controllo di Bruxelles sui vincoli di deficit e debito. E quindi accusa i “poteri forti” di essere il nemico dell'Italia. Fu però deciso dal potere politico italiano e non dai poteri forti la cessione di sovranità. Perché?

Questo il ragionamento: l'Italia ha una base industriale, ma essa è penalizzata dagli alti tassi di interesse. Il livello di questi ultimi dipende dall'inflazione corrente e dall'incertezza intorno al suo corso futuro. L'incertezza richiede un premio (per il rischio) sopra il tasso di inflazione corrente. Il denaro alla fine costa molto più che in altri Paesi e penalizza l'industria italiana (ma anche le famiglie se accendono i mutui, e il Tesoro in sede di pagamento degli interessi).

Vincolando il cambio, l'inflazione non potrà che scendere, e vincolando il bilancio pubblico (come era stato fatto quindici anni prima) al solo finanziamento con obbligazioni (ossia senza emissione di moneta), l'inflazione non potrà che scendere. Se l'inflazione si comprime, i tassi (reali) d'interesse si comprimono, perché scompare il premio per il rischio, e quindi l'industria italiana non sarà più penalizzata rispetto ai concorrenti esteri.

Il ragionamento fin qui è lineare, ma manca un pezzo tutto fuorché secondario. La decisione di apertura dei mercati e di adozione dell'euro aveva un risvolto politico molto forte, perché il meccanismo dell'aggiustamento dei conti (e del consenso) attraverso le svalutazioni era ora reso impossibile.

I salari in Italia crescevano più della produttività. In diversi momenti nel corso del tempo - ossia man mano che crescevano i differenziali di inflazione - le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque si era a un bivio: o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie superiori che avrebbero protetto la crescita del costo del lavoro. C'era però una terza opzione. La svalutazione della lira era la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano (temporaneamente) appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le “relazioni industriali”. Questo percorso non richiedeva – nel breve termine – che la tecnologia salisse di livello.

3 – Una nota politica

Si hanno le opposizioni che vogliono la spesa in forte deficit e la lira - chi più chi meno e con sfumature - come soluzione per rilanciare l'economia. Alcuni hanno simpatia per le nazionalizzazioni. Ossia, si vogliono cancellare le tre cose che sono state fatte negli ultimi decenni: il deficit sotto controllo, la moneta comune, le privatizzazioni. Le tre cose avevano lo scopo di frenare la spesa pubblica incontrollata, la rincorsa salari-prezzi-svalutazione, e la presenza del sistema politico nelle imprese.

Una volta che la spesa pubblica sia stata espansa, essa rientra? La spesa, svolto il suo compito "propulsivo", sempre che abbia un moltiplicatore maggiore dell'unità, poi si riduce? Oppure la spesa pubblica che per sua natura - essa è “catturata” dai gruppi organizzati - crescerà in modo perpetuo? Questo è un aspetto critico delle politiche di ritorno alla spesa pubblica, finanziata o meno con la moneta nazionale.

Ne abbiamo un altro, legato al lungo termine. Lo sviluppo economico è tanto maggiore quanto minori sono i vincoli sia nel mercato dei prodotti sia in quello del lavoro. Se non vi sono troppi vincoli, le innovazioni si diffondono facilmente, perché si hanno meno ostacoli nella diffusione dei prodotti, che, a loro volta, possono materializzarsi solo se la forza lavoro si sposta dai vecchi ai nuovi settori. Con il ritorno della lira, che favorisce lo status quo, perché rende competitivo un sistema nel breve termine, questi incentivi varrebbero meno. Queste considerazioni non tengono conto dell'effetto (devastante) che si avrebbe sul governo del debito pubblico con il ritorno della lira.