Tra gli argomenti di cronaca dell’estate 2017 uno spazio rilevante è stato occupato dall’inasprirsi della crisi politica, economica e umanitaria del Venezuela. A un anno di distanza da quanto raccontato in questa rubrica il futuro del paese è oggi quanto mai incerto.

Iniziata a fine 2015, sono tre gli episodi che hanno infiammato la crisi del Venezuela nell’ultimo anno e mezzo: il tentativo della corte suprema di limitare i poteri dell’assemblea nazionale, la messa al bando dalla politica del leader dell’opposizione Henrique Capriles, e la dichiarazione del Presidente Nicolás Maduro di voler convocare un’Assemblea costituente per riscrivere la Costituzione. A questi fatti è seguita a luglio la grande consultazione popolare organizzata dalla coalizione d’opposizione (la Mesa de la unidad democrática, MUD), il cui esito è stato certamente importante dal punto di vista simbolico e mediatico, ma nullo dal punto di vista della politica interna, visto che, a poche settimane dalla chiusura dei seggi, nel Parlamento di Caracas si insediava l’Assemblea Costituente e di lì a poco l'ex procuratore Luisa Ortega Diaz era costretta a fuggire dal paese a causa delle accuse di corruzione mosse al Presidente.

Ripercorrendo le notizie pubblicate sulla crisi venezuelana, molta dell’attenzione si è concentrata sulle manifestazioni antigovernative e sui disordini a Caracas, sulle vittime degli scontri, molte delle quali giovanissime, sugli arresti e le repressioni interne. Si è anche letto delle accuse reciproche di colpo di stato tra Governo, esercito e opposizioni e del presunto coinvolgimento di governi esteri interessati a destabilizzare l’area. Una parte della stampa, e con essa il Papa, si è infine soffermata sulla povertà e sulle sofferenze della popolazione venezuelana.

Le rappresentazioni sono diverse, così come le spiegazioni che si cerca di dare. Molti offrono l’immagine di un paese vicino al collasso economico e finanziario perché devastato da 16 anni di dittatura e corruzione. Ma c’è anche chi racconta di colpe distribuite tra governo, polizia e opposizione. C’è chi sottolinea come sia stato il crollo del prezzo del petrolio (da circa 5 anni fermo a circa 40 dollari al barile) e il conseguente impoverimento del paese a favorire il successo elettorale del MUD nel 2015 e la susseguente deriva anticostituzionale di Maduro. C’è anche chi denuncia ricostruzioni ideologiche di una parte della stampa internazionale e chi racconta di una società venezuelana ricca e privilegiata che dalla crisi trae profitto. Si tratta però di una minoranza. La maggior parte della popolazione subisce negativamente gli effetti dell’instabilità politica e della povertà. E sempre più sono quelli che decidono di partire.

Figura 1 - I rifugiati e i richiedenti asilo provenienti dal Venezuela (destinazione: tutti i paesi). Anni: 2000-2016

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Fonte: Elaborazione su dati del UNHCR Population Statistics Reference Database

Chi sinora era rimasto, sperando in una svolta pacifica e democratica, ora cerca di andarsene e raggiungere i parenti in altri paesi. Tra questi anche molti dei poveri che in passato avevano beneficiato della generosità ridistributiva del Chavismo. I dati della UNCHR mostrano con chiarezza il fenomeno: inferiori a 700 fino all’anno 2000; in un solo anno, tra il 2001 e il 2002, i rifugiati e i richiedenti asilo provenienti dal Venezuela passano da 800 a 1.300. Seguono 12 anni di crescita sostenuta e abbastanza regolare (circa + 35% annuo), cui seguono altri due anni di crescita esponenziale.

I principali paesi di destinazione di questi flussi sono gli Stati Uniti (nel 2016 sono stati 34,6 mila su 52,6 mila complessivi i migranti che hanno raggiunto gli USA), Spagna (4,5 mila), i vicini stati dell’America del Sud - Brasile (4,3 mila), Perù (3,7 mila), Costa Rica (1,5 mila) - e il Canada (1,3 mila). Tra i paesi interessati vi sono anche Messico e Argentina, ma con percentuali più basse. In Colombia, invece, i flussi sono quotidiani e consistenti (con più di 25.000 al giorno si stima che i Venezuelani nel paese siano oggi circa 1,2 milioni su una popolazione di 45 milioni), con un effetto di destabilizzazione che si ritrova anche in altri paesi dell’America latina.

A fronte di un simile esodo, una seconda dinamica interessante riguarda il processo democratico interno (ma dovremmo dire esterno) al Venezuela. Coerentemente con un trend diffuso in Sudamerica, i migranti che lasciano il Venezuela tendono a sviluppare una forte partecipazione e mobilitazione politica per le vicende del proprio paese (1). Questo attaccamento, unitamente alla tendenza dei Venezuelani di concentrarsi in specifici paesi e aree geografiche, è anche il collante che permette la nascita di comunità politiche extra moenia.

Un fenomeno che il Presidente Nicolas Maduro ha certamente presente e che già un anno fa riecheggiava nei suoi discorsi contro le ingerenze di USA e altri governi stranieri a danno del Venezuela. L’idea di fondo è che, soprattutto laddove le comunità politiche extra moenia sono più concentrate, azioni mirate possano essere efficacemente implementate per influenzarne l’operato e esercitare così una pressione mediatica e politica indiretta. E, effettivamente, le comunità anche politiche di Venezuelani che vivono negli USA non sono poche. Secondo le analisi del Pew Research Center nel 2013 risiedevano negli USA circa 248,000 ispanici venezuelani, ossia 248,000 persone che, indipendentemente dal fatto di essere nati negli Stati Uniti o di possedere la cittadinanza statunitense, dichiarano le proprie origini familiari in Venezuela. Di questi, il 69% risiede in Stati del Sud, e il 42%, pari a circa 104 mila persone, nel solo Stato della Florida. Inoltre, differentemente dagli altri ispanici residenti nel paese, sono persone con livelli di istruzione e reddito vicini a quelli medi.

L’attivismo politico dei migranti venezuelani è emerso anche in occasione della consultazione popolare ¡EL PUEBLO DECIDE! organizzata dal MUD contro la Costituente di Maduro. Il 6 luglio 2017, 7.186.170 dei 15 milioni di Venezuelani che vivono fuori del Paese si sono recati, passaporto alla mano, in uno dei 607 puntos soberanos allestiti per l’occasione in 83 diversi paesi.

Figura 2 – Numero di gazebo allestiti per Paese. Prime posizioni (6 luglio 2017)

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Fonte: elaborazione su dati MUD

Una mobilitazione enorme, anche considerato il periodo estivo che non favoriva la partecipazione. Ma qual è stata nei fatti la geografia del voto dei migranti? Dati puntuali non sono disponibili, ma se si va a vedere la localizzazione geografica dei seggi si vede che la maggior parte di questi (143 su 607) è stato allestito negli USA e in particolare negli stati della Florida (28) e del Texas (16).

Figura 3 – Numero di gazebo allestiti negli USA, per Stato. Prime posizioni (6 luglio 2017)

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Anche l’Italia ha visto una buona partecipazione con 35 gazebo elettorali allestiti prevalentemente in Abruzzo (7), Sicilia (7) e Veneto (5). Ad essere coinvolte sono state soprattutto le amministrazioni comunali che hanno concesso agli organizzatori spazi e l’occupazione di suolo pubblico, ma tra le sedi dei banchetti compaiono anche ristoranti, sedi di circoli e associazioni private, hotel e ristoranti.

Il referendum è stato un successo anche dal punto di vista politico (al 98% i votanti hanno detto no al progetto di un'Assemblea costituente) e la speranza di molti, tra cui Michael Shifter, presidente della Inter-American dialogue, era di sfruttare il sostegno per l’iniziativa raccolto al di fuori del paese e la pressione dell’opinione pubblica internazionale per porre un freno al regime dittatoriale di Maduro e spingere verso una risoluzione negoziale della crisi, allontanando così lo spettro della guerra civile. Le aspettative si sono però rivelate eccessive (1) e così non è stato: il Presidente Maduro ha continuato sulla sua linea e oggi il destino del paese è sempre più cupo e incerto.

Note

  • Itzigsohn J., Villacrés D. (2008), Migrant political transnationalism and the practice of democracy: Dominican external voting rights and Salvadoran home town associations, Ethnic and Racial Studies, Vol. 31, No.4, 664-686.
  • Itzigsohn e Villacrés lo avevano intuito nei loro studi: la partecipazione politica dei migranti può riuscire a favorire nei paesi d’origine il rafforzarsi in chiave democratica delle regole della competizione politica ma non molto riesce a fare rispetto alla diffusione di pratiche partecipative e deliberative.