Trovate di seguito un articolo pubblicato su Limes (1). La prima e la seconda parte - l'introduzione e il primo strato del carciofo - sono nuove. Il resto riprende i lavori pubblicati su Lettera Economica.

In origine, nell'Eurozona, abbiamo due schieramenti: da una parte i tedeschi e i loro seguaci austeri, le formiche; dall'altra i mediterranei che sperperano, le cicale. I francesi, essendo sia franchi sia galli, stanno nel mezzo.

Ma ecco che finalmente Draghi rompe gli schieramenti iniziali con le sue politiche ultraespansive e aiuta Renzi e Hollande col tacito appoggio di Angela Merkel, ormai intimorita dalla recessione che lambisce persino la Germania.

Nella succitata narrazione sono indicati come modello i paesi che hanno intrapreso da molto tempo delle politiche di espansione fiscale e monetaria: gli Stati Uniti e il Giappone (la Gran Bretagna è un caso intermedio). Nel caso dell'espansione monetaria essi sono un modello non perché abbiano portato come l'Eurozona il tasso di sconto a zero, ma perché, a differenza dell'Eurozona, le loro Banche centrali acquistano titoli del Tesoro e, nel caso statunitense, anche titoli privati.

Insomma, grazie a Draghi stiamo abbracciando con ritardo quelle politiche ultraespansive che hanno aiutato gli altri paesi a uscire dalla crisi.

Resta da capire perché mai siamo arrivati in ritardo e se queste politiche siano davvero efficaci nell'Eurozona. Partiamo, come i Savoia che si espandevano “a carciofo”, da un ragionamento di massima che poi complichiamo in più stadi.

Quando un'economia rallenta, la Banca centrale cerca di ridarle vigore, in prima battuta abbassando il tasso di sconto. Le banche di credito ordinario ottengono dalla Banca centrale il credito a un costo inferiore e prestano a loro volta alle famiglie ed alle imprese a un costo inferiore. Il minor costo del denaro spinge il settore privato ad alzare i consumi e gli investimenti. L'economia smette così di rallentare e poi si riprende. Il tasso di sconto è stato abbassato negli Stati Uniti, nell'Eurozona e in Giappone. Gli investimenti non sono però ripartiti come in passato e i consumi si sono ripresi solo in parte.

Gli investimenti e l'occupazione ripartono se gli imprenditori pensano che in futuro ci sarà una maggior domanda, superiore a quanto sono in grado di produrre con gli impianti e la manodopera in essere. Se non lo pensano, non investono e non assumono. Il costo del denaro diventa così meno importante delle aspettative intorno alla domanda. Segue che il costo del denaro, per quanto lo si schiacci fino a portarlo intorno allo zero, diventa via via meno (“al margine”) meno importante. Lo stesso vale per le famiglie, che tornano a consumare (a risparmiare di meno) solo se pensano che in futuro avranno un reddito maggiore.

A quel punto si fa strada l'idea che, in un mondo subissato dall'incertezza, deve agire chi ha orizzonti temporali lunghi e non ha vincoli finanziari.

Ecco la spesa pubblica in deficit. Uno Stato solido non solo ha un orizzonte secolare, ma può sempre alzare le imposte per pagare i propri debiti. Lo Stato spende in deficit (ossia spende più di quanto raccolga con le imposte) e, in presenza di una sottoccupazione significativa degli impianti e della manodopera, riesce, generando una domanda addizionale dal nulla, ad alzare la domanda più di quanto altrimenti avverrebbe. La maggior domanda si riverbera nell'economia depressa, rianimandola. L'economia, ormai rianimata, produce - a parità di aliquote - un gettito fiscale che copre il deficit iniziale.

Insomma: se c'è una crisi, prima si agisce sul versante della politica monetaria, e, se questa non funziona, sul versante di quella fiscale. E tutto torna come prima. Questo è il primo strato del carciofo. Qui ci sono i flussi di reddito (consumi, investimenti, spesa pubblica) ma non gli stock (debito pubblico e privato). Passiamo così al secondo strato del carciofo che li include.

Secondo alcuni, il Giappone non è entrato in depressione negli anni Novanta, quando è scoppiata la bolla del debito, ma ha soltanto sperimentato una crescita nulla, perché aveva capito dov’era il problema. Possiamo chiamare il problema lo “sciopero del debitore”. Nessuno in Giappone voleva del credito, qualunque fosse stato il tasso d’interesse praticato, perché doveva rendere il troppo debito che aveva accumulato. Nel caso giapponese erano le imprese non finanziarie, troppo indebitate, a non volere il credito. Ma se nessuno vuole il credito, l’economia non funziona. In questo caso i tassi, per quanto bassi, non possono ravvivare la richiesta di credito.

La politica monetaria dunque è spiazzata. Resta la spesa pubblica per salvare le cose. La s’incrementa fino ad assorbire la riduzione di quella privata. I finanziamenti che andavano al settore privato ora vanno a quello pubblico. Il fabbisogno finanziario dello Stato non spinge al rialzo i rendimenti delle obbligazioni, perché il settore privato non chiede più, fin tanto che deve ridurre il proprio debito, capitali al mercato. Questo punto di vista porta a una conclusione molto importante: non bisogna tentare di ridurre il deficit pubblico fino a quando non si è sicuri che l’economia torni a chiedere credito. Se si cerca di controllare prima del tempo il deficit pubblico, contando che al minor credito chiesto dal settore pubblico corrisponda automaticamente un maggior credito chiesto dal settore privato, si rischia di peggiorare le cose - proprio come è avvenuto in Giappone nel 1997 e nel 2001.

Il Giappone per evitare la depressione ha così accumulato un debito pubblico pari a oltre il 200% del pil, il doppio quello degli Stati Uniti e dell'Eurozona. Nonostante la sua consistenza il debito giapponese costa quasi nulla. Il Tesoro nipponico paga, infatti, meno del 1% sul debito cumulato, mentre la Germania paga il 2%, e l'Italia il 4%. La tentazione di considerare il debito un “non problema” è perciò molto forte. Per quando esso sia enorme, alla fine non costa, e, in ogni modo, la Banca centrale, se necessario, interviene comprandolo. Se il debito non è un problema, allora si può espandere la spesa pubblica per il periodo necessario al rilancio.

C'è però un limite a questa politica di salvataggio basata sul debito pubblico comprato dalla Banca centrale. La crescita del debito pubblico arriverà a un certo punto a pesare troppo sul complesso delle attività finanziarie dei privati. Non delle famiglie direttamente, ma delle banche, delle poste, e delle assicurazioni che curano la ricchezza delle famiglie attraverso i depositi e le polizze. A un certo punto dovrebbe scattare per il settore privato la tentazione di diversificare dal debito domestico. Per trattenere la ricchezza dei privati nel debito pubblico, i tassi di interesse dovranno, infatti, salire, e il bilancio pubblico andrà subito sotto pressione, perché dovrà pagare degli interessi maggiori su un debito che è il doppio del pil.

Negli Stati Uniti, a differenza del Giappone, il debito cumulato nel decennio scorso non è stato delle imprese non finanziarie, ma delle famiglie, soprattutto in campo immobiliare, soprattutto attraverso i mutui ipotecari impacchettati in forma di obbligazioni. Da qui la doppia azione di politica economica. Il deficit pubblico qualche anno fa è stato espanso per bilanciare la possibile caduta della domanda privata, legata al maggior risparmio necessario per onorare il debito fino a un livello “greco”.

Questo deficit pubblico è stato in parte finanziato dalla Federal Reserve, la Banca centrale, che ha comprato i titoli del Tesoro. Non solo, la Fed ha anche comprato le obbligazioni con in pancia i mutui ipotecari. Facendo così, ha abbattuto il costo dei mutui e perciò ha alleviato l'onere da interessi per le famiglie. Insomma, la Banca centrale statunitense ha seguito e ampliato l'opzione giapponese, che è ormai diventata famosa col famigerato nome di Quantitative Easing.

Perché mai nell'Eurozona non si è avuta la stessa politica economica?

Intanto, nel complesso non c'era il gran debito del settore privato - nel caso giapponese delle imprese, in quello statunitense delle famiglie. E poi per una ragione più profonda. E siamo al terzo strato del carciofo.

Qual è la differenza fra i bilanci statali dell'Eurozona e degli Usa e quello federale degli Stati Uniti? I bilanci statali statunitensi non possono andare in deficit, se non per spese come quelle per le infrastrutture. Quindi gli Stati possono emettere solo delle obbligazioni finalizzate, i cosiddetti Project Bond. Se gli Stati non possono andare in deficit al di fuori dei progetti finalizzati, possono alzare le spese solo se alzano le imposte. Segue che l’unico bilancio che può andare in deficit è quello federale. Il vincolo del pareggio per gli Stati esiste per impedire che questi ultimi si diano alla “pazza gioia” nello spendere, perché contano che il governo centrale alla fine li salverà dai debiti accumulati.

I bilanci statali dei paesi dell’Eurozona possono invece andare in deficit, ma entro i vincoli di Maastricht: il tetto è del 3% del pil per il deficit e del 60% per il debito. La Germania e gli altri paesi detti virtuosi non garantiscono il debito degli altri Stati, quelli detti viziosi. O meglio, durante la crisi di poco tempo fa si sono avuti degli aiuti, ma vincolati a un programma preciso di risanamento. Quando gli Stati europei si indebitano troppo, senza dar mostra di poter ripagare il debito cumulato, ci si attende che i mercati finanziari li “puniscano”, ossia che chiedano un premio per il rischio. Tanto maggiore il premio, tanto maggiore il costo del debito, con quest'ultimo che spinge a risanare i bilanci pubblici.

Gli Stati Usa sono vincolati al pareggio di bilancio, mentre gli Stati dell'Eurozona sono vincolati a onorare i vincoli di Maastricht attraverso il controllo dei mercati finanziari. Negli Usa solo il governo centrale può andare in deficit – per esempio perché trasferisce reddito dagli Stati che vanno bene a quelli che sono in crisi - e solo lui è giudicato dai mercati finanziari.

Nell’Eurozona non si ha un sistema di trasferimenti di tipo federale, ossia automatico. Se i disoccupati aumentano in Grecia, non si hanno i sussidi di Bruxelles. Il sistema dei trasferimenti automatici si può avere solo se nessuno è “cicala” tranne il governo centrale. Nell'Eurozona il deficit centrale lo si potrà avere in futuro, se tutti gli Stati membri avranno un bilancio in pareggio, con esenzioni definite per l’emissione di obbligazioni finalizzate, proprio come avviene negli Usa.

Quando finalmente i bilanci degli Stati saranno in pareggio, ossia quando non si emetteranno più nuove obbligazioni “nazionali” - detto diversamente: quando le obbligazioni saranno solo quelle già emesse che vanno in scadenza e vengono rinnovate - allora si potrà avere un deficit comune, o in solido, finanziato con gli Eurobond. Perciò chiedere delle politiche fiscali espansive a livello nazionale e continentale richiamando il modello statunitense … porta all'austerità nazionale prima e al pareggio di bilancio nazionale poi.

Le politiche fiscali nell'Eurozona possono essere lasche, ossia in deficit sopra il vincolo di Maastricht del 3%, solo per il tempo necessario ad aiutare la ripresa (la famosa “flessibilità”). Ad ogni modo, la tendenza di lungo termine del bilancio pubblico deve essere nella direzione del pareggio. Questo perché il debito deve tendere a soddisfare il secondo vincolo di Maastricht - quello del rapporto debito/pil entro il 60%. La riduzione del peso del debito sul pil si ottiene non emettendo più debito, e con il la crescita economica. Ossia, con il numeratore che è fermo e con il denominatore che varia.

Restano perciò le politiche monetarie. Queste, sul lato tradizionale - la gestione del costo del denaro - sono da tempo ultraespansive. Il tasso di sconto è nullo (0,5%) e il rendimento delle riserve non obbligatorie negativo: le banche di credito ordinario perdono ogni anno lo 0,2% a lasciare il denaro “dormiente”. Si ha, infine, l'attivismo annunciato in sede di acquisto di obbligazioni private. Queste ultime possono aiutare la ripresa del ciclo del credito. Una parte dei crediti delle banche può essere impacchettata in obbligazioni e comprata anche dalla Banca centrale. Le banche si trovano così ad avere meno impieghi diretti e possono riprendere a erogare credito. Il punto è che migliora l'offerta di credito, ma dovrebbe anche esserci domanda di credito.

Nell'Eurozona non si possono avere politiche fiscali ultraespansive, ma moderatamente espansive per un periodo limitato, mentre si possono avere delle politiche monetarie ultraespansive purché non portino all'acquisto del debito pubblico. L'acquisto di titoli del debito pubblico, schiacciando permanentemente il costo del debito, allenterebbe gli incentivi a riformare l'economia. La ripresa non può perciò che venire dal miglioramento delle condizioni di offerta, ossia da un miglior mercato dei prodotti e del lavoro. Più precisamente: una spesa pubblica in largo deficit con il paracadute degli acquisti dei titoli del Tesoro (emessi per finanziare il largo deficit) comprati dalla Banca centrale darebbe forza al “partito della spesa”, con ciò aiutando a spostare nel tempo la necessità di fare le riforme.

Draghi ha infatti dichiarato: “L’idea è che esistano tre strumenti per rilanciare la crescita. Riforme strutturali, politica fiscale e politica monetaria. Ho iniziato parlando della politica monetaria, poi ho fatto riferimento alla politica fiscale, ma ho concluso sostenendo che non c’è stimolo fiscale o monetario che possa produrre un qualsiasi effetto in mancanza di riforme strutturali che siano ambiziose, importanti e decise”.

(1) http://temi.repubblica.it/limes/cosa-puo-e-cosa-non-puo-fare-mario-draghi-per-salvare-leurozona/66019