L'anno prossimo si celebrano le elezioni politiche. Che cosa è proposto dai partiti e che cosa potrà verosimilmente accadere in campo economico se nessun partito avrà la maggioranza dei seggi?  L'articolo che affronta la questione è stato pubblicato da Limes il 14/8/17.

 

I programmi dei partiti principali in vista delle prossime elezioni politiche in Italia prevedono una spesa pubblica invariata e un taglio alle imposte.

La decurtazione delle spese non raccoglierebbe i voti di coloro che si immaginano penalizzati, ossia – in un mondo di individui sospettosi – tutti, mentre la riduzione della pressione fiscale sarebbe vista con favore dai contribuenti.

Proponendo piani simili, i grandi partiti pensano di garantirsi un maggior numero di voti. Ma così facendo alimentano la credenza che si possano avere gli stessi beni e servizi pubblici di prima, mentre il reddito a disposizione è aumentato.

Una spesa invariata a fronte di minori entrate genera infatti un deficit, che va finanziato con l’emissione di moneta o con l’emissione di obbligazioni, oppure con una combinazione di questi due strumenti.

Non tutti i partiti hanno le stesse idee sulla questione dei finanziamenti: c’è chi vuole emettere solo obbligazioni e chi spinge per emettere anche moneta, o meglio, un nuovo tipo di moneta.

La moneta non può essere l’euro, perché viene emesso dalla Banca Centrale Europea. Il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) italiano potrebbe perciò emettere titoli – i Certificati di credito fiscale (Ccf) – per finanziare l’aumento della spesa pubblica. Questi sarebbero utilizzabili dai privati per la risoluzione del contenzioso fiscale con lo Stato in sostituzione dell’euro, in un rapporto di uno a uno. Non sarebbe perciò possibile presentare i Ccf al Mef per l’incasso in cambio di euro. I Ccf sono, in fin dei conti, dei crediti illiquidi. Vale a dire, a differenza degli euro e dei Btp, non realizzabili in ogni momento sui mercati finanziari. Tralasciamo la nebulosa vicenda della moneta emessa a Roma oltre che a Francoforte e torniamo al dibattito precipuo.

Secondo il punto di vista dominante, la spesa pubblica dovrebbe restare invariata, mentre le imposte andrebbero tagliate, creando un maggiore deficit. Quest’ultimo sarebbe però compensato dalla maggiore crescita economica, a sua volta figlia del minor carico fiscale. Sentendosi meno “torchiati”, i privati tornerebbero infatti a consumare e investire, accrescendo il reddito nazionale che genera un maggior gettito anche con aliquote d’imposta minori.

Queste sono le idee che si imposero negli Stati Uniti con la presidenza di Reagan e che sono riemerse con quella di Trump. La proposta ultima del segretario del Partito democratico Matteo Renzi – rivedere le regole fiscali europee per avere, in assenza di tagli alla spesa, un deficit maggiore da utilizzare per ridurre le imposte – va in questa direzione.

I seguaci delle politiche keynesiane tradizionali pensano che questa politica sia un grave errore, poiché il moltiplicatore (di quanto aumenta il reddito nazionale per ogni euro aggiuntivo di spesa o di taglio delle imposte) è maggiore di uno per la spesa pubblica per investimenti e inferiore a uno per il taglio delle imposte. Perciò, se si espande il bilancio in deficit per finanziare gli investimenti pubblici, il reddito nazionale cresce molto più di quanto avverrebbe col taglio delle imposte, lasciando la spesa pubblica invariata.

Anche ammettendo la bontà della tradizione keynesiana, si potrebbe obiettare che non si vincono le elezioni proponendo il rinnovo delle infrastrutture pubbliche diluito negli anni mentre si lascia la speranza di una riduzione delle imposte imprigionata in un lontano futuro.

Portata al suo estremo, la proposta keynesiana classica suona così: si emettono obbligazioni che finanziano opere publiche, ossia obbligazioni “di scopo”. Queste sono acquistate anche dalla Banca Centrale. Avremmo un nuovo Quantitative Easing (Qe), l’acquisto di obbligazioni da parte della Banca Centrale, che però non si concentra sui titoli del Tesoro – che per loro natura sono “generici” – bensì sui titoli “dedicati”. Questa proposta è stata fatta tempo fa da Corbyn; il suo nome pop è Qe for the people.

Ideologicamente parlando, abbiamo così all’estrema destra il mantenimento del livello corrente della spesa contestuale al taglio delle imposte, con il deficit finanziato anche dall’emissione di moneta fiscale. E all’estrema sinistra il mantenimento del livello corrente delle entrate con l’incremento della spesa pubblica per investimenti specifici, finanziata con l’emissione di obbligazioni.

In mezzo ci sono i programmi effettivi dei partiti maggiori, simili tra loro, rispetto ai quali la scelta politica dell’elettorato non è mai riducibile a quella economica. Un elettore, infatti, non sceglie sulla base dei soli esercizi econometrici, che mostrano (forse) quale dei due succitati estremi o quale combinazione faccia crescere maggiormente l’economia. Un elettore potrebbe scegliere per ragioni politiche il programma che riduce il peso dello Stato per promuovere la libertà, oppure quello che lo amplia per aumentare l’eguaglianza.

Eccoci all’impatto finanziario delle elezioni. Lo scenario probabile è che nessuno vinca: i tre maggiori raggruppamenti hanno programmi economici simili e ciascuno un 30% dei voti, per di più in assenza di un premio di maggioranza.

I mercati finanziari dovrebbero, a cavallo delle elezioni, scommettere che si avrà una crescita trainata dalle minori imposte in grado di controllare il debito pubblico, che è di dimensioni ragguardevoli. Solo facendo questa scommessa i mercati non chiederebbero – per coprirsi dal rischio di un debito “galoppante” – un rendimento molto maggiore sui titoli in scadenza e di nuova emissione italiani.

Un eventuale maggior rendimento richiesto dagli investitori, frutto della mancanza di fiducia in soluzioni neo-reaganiane applicate a un paese dall’ingente debito pubblico, non avrebbe però un impatto devastante sui conti pubblici: il nostro debito ormai scade lentamente e la Banca centrale che lo ha accumulato non dovrebbe venderlo.

Durante la crisi del 1992 – quella della svalutazione della lira e della manovra monstre da 93 mila miliardi di lire varata dal governo Amato – il debito pubblico aveva una vita media piuttosto bassa, poco meno di tre anni, che alimentava la preoccupazione per i tempi stretti in cui il Tesoro trovava a rinnovare i propri titoli. Oggi la vita media del debito è di quasi sette anni. Via Venti Settembre si trova perciò in una situazione molto diversa, a differenza del passato, allineata agli altri paesi dell’Eurozona.

C’e chi ritiene che i rendimenti non potranno che salire qualora la Banca Centrale smettesse di acquistare obbligazioni. L’approccio “purista” afferma che la Bce compra obbligazioni quando necessario e, terminato il periodo che richiedeva questa politica straordinaria, realizza – ossia non rinnova e vende sul mercato – le obbligazioni in scadenza. In questo modo abbatte il proprio attivo che si era gonfiato e tutto torna come prima. Nel caso purista, il bilancio della Banca centrale torna “snello”, mentre s’ingrossa quello dei privati.

Il ritorno alla situazione ante-crisi non è indolore. Il settore privato, che ha acquisito una parte del debito emesso negli anni di crisi, dovrebbe assorbire anche quello acquistato nello stesso periodo da Francoforte. Il tutto in un contesto – si dovrebbe avere una ripresa dell’economia reale – di rialzo della curva dei rendimenti, ossia della disposizione per scadenze dei tassi e dei rendimenti. Il costo economico e politico per il bilancio pubblico di questa combinazione (rialzo dei tassi e vendita dei titoli della Bce) potrebbe rivelarsi troppo alto.

La conclusione è allora che la Banca centrale rinnovi i titoli in scadenza in modo che non si abbia una pressione sui portafogli dei privati. I titoli sarebbero perciò rinnovati, mentre le cedole in gran parte tornerebbero al Tesoro perché le Banche centrali, rafforzato il proprio bilancio, debbono rendere ogni surplus – ossia, i frutti del signoraggio – allo Stato. In altri termini, una soluzione che preveda il congelamento del debito pubblico acquistato dalle Banche centrali negli anni di crisi.

Se anche a cavallo delle elezioni ci fosse una crisi finanziaria non devastante – “non devastante” perché il debito pubblico ha ormai una vita media lunga e perché la Bce non vende i titoli del Tesoro che ha in portafoglio – avremmo lo stesso chi punterà il dito contro l’avida finanza e la parte politica asservita alle sue losche trame. Lo farà perché denunciare eroicamente i cattivi di fronte al popolo innocente è una retorica politica che elettoralmente paga. Il caso italiano mostra però come non si tratti di un “asservimento” del potere politico alla finanza, ma di una cessione di controllo.

Una volta il debito pubblico italiano era detenuto dalle banche italiane. Era facilmente governabile, perché le banche erano in gran parte pubbliche. Poi è passato nelle mani delle famiglie italiane, rimanendo facilmente governabile, perché in cambio di rendimenti molto elevati queste lo sottoscrivevano. Si aveva così un meccanismo di consenso molto semplice.

La politica governava il debito prima attraverso le “sue” banche, poi attraverso gli alti rendimenti. In questo modo non si poteva formare un giudizio di merito pubblicamente condiviso sul debito dell’Italia. Nel primo caso gli investitori erano “catturati”, nel secondo “sedotti”. In breve, il Principe non faceva fatica a ricevere il consenso degli elettori-risparmiatori, tanto più che il debito crescente si sarebbe scaricato sui “non nati” che, in attesa della cicogna, non votano.

Ma oltre venti anni fa è arrivato il momento del mercato, in doppia direzione: gli italiani possono investire all’estero e l’estero può investire in Italia. Si possono finalmente formare giudizi di merito: qual è il premio – il maggior rendimento richiesto – per detenere il debito italiano rispetto a quello tedesco?

Il Principe deve ora convincere che il debito è sottoscrivibile. Cambia la natura del rapporto: il Principe prima non faceva fatica a collocare il debito e non doveva persuadere nessuno sulla sua tenuta; al contrario, adesso s’affanna e deve dunque varare politiche coerenti nel tempo.

 

Fonte: http://www.limesonline.com/economia-i-principali-partiti-italiani-non-hanno-programmi-sostenibili-ma-per-fortuna-non-importa/100711