Barack Obama riparte con una nuova agenda economica in vista delle presidenziali dell’anno prossimo, e per farlo mette mano al suo team e alle sue priorità. Occupazione e competitività sono i nuovi obiettivi, da raggiungere con investimenti pubblici laddove sono indispensabili – secondo l’ortodossia liberal: ricerca, istruzione, formazione e con il corteggiamento del big business. Per farlo, il presidente americano si è circondato di mediatori efficaci, che sanno parlare al business, che si è sentito in questi anni molto trascurato, pure quando ha avuto ottime protezioni.

L’operazione è così travolgente che, secondo «New Republic», pubblicazione liberal, Obama non sta avvicinandosi al mondo dell’imprenditoria, «lo sta cooptando». Si alzano grida di delusione da molte parti, e nel cortocircuito delle critiche si ritrovano due strange bedfellows: il Nobel per l’Economia Paul Krugman, neokeynesiano che da anni chiede all’Amministrazione di spendere e stimolare l’economia, e i Tea Party, libertari fino al midollo, paladini dello small government, del taglio delle tasse, della fine dello strapotere di Washington.

Krugman ha scritto che Obama, asservendosi alle grandi imprese, sta ricostituendo a una a una tutte le condizioni che portarono alla sciagura del 2008: una élite pressoché onnipotente, senza controlli, che crea un sistema di moltiplicazione di denari destinato a trasformarsi in bolla e poi a scoppiare (e l’élite lo fa, stando a quanto dice la commissione che ha indagato sui fatti che portarono al tracollo e allo choc finanziario che ha condotto alla recessione, non proprio di proposito, ma quasi). Così facendo, sostiene Krugman, non ci sarà più competitività, ma più rischio.

Dall’altra parte dello spettro della filosofia economica, là dove abitano i libertari, quelli che sostengono che pure la Federal Reserve andrebbe abolita, altro che investimenti statali, la lotta alla «svolta business» di Obama è altrettanto veemente. FreedomWorks, che difende lo small government e la diminuzione delle tasse, sostiene che la scelta di mettere Jeffrey Immelt, chief executive di General Electric, al posto di Paul Volker alla guida del panel che, per la Casa Bianca, studia le vie della ripartenza è «corporativismo nella sua forma più pura». È tempo di smetterla con la «relazione del tutto non etica» tra stato e business, perché altrimenti continuerà a fiorire l’attività di lobby al fine di ottenere privilegi che vanno a gravare sui conti pubblici (già in uno stato terribile: millecinquecento miliardi di dollari di deficit).

Da due prospettive diverse, la nuova formula obamiana trova pesanti critiche. Soprattutto per quel legame da sempre poco ambiguo tra il mondo finanziario e la politica: il nuovo chief of staff, William Daley, è un veterano di JpMorgan, di Immelt si è già detto, ma anche il sostituto di Larry Summers, alla guida degli economisti della Casa Bianca, Gene Sperling, che ha lavorato per Goldman Sachs e, nel governo clintoniano, contribuì ad abrogare il Glass Steagall Act, la norma che separava le banche commerciali da quelle finanziarie, una delle precondizioni del collasso finanziario del 2008.


Per approfondimenti:

http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/video/2011/01/25/VI2011012507972.html

http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704013604576104672580318638.html?KEYWORDS=Seib

http://www.tnr.com/article/politics/82096/obama-state-of-the-union-business

http://www.nytimes.com/2011/01/24/opinion/24krugman.html?_r=1&partner=rssnyt&emc=rss

http://www.ft.com/cms/s/0/e0dd0696-27eb-11e0-8abc-00144feab49a.html#axzz1CA6HLpQa