Questo lungo articolo è un tentativo di mettere insieme le vicende della crisi in corso. La conclusione pratica: è meglio essere ancora molto prudenti.

Si credeva che la povertà asiatica non fosse eliminabile, ed ecco la crescita cinese che trascina centinaia di milioni di persone verso un livello di vita decoroso. Si credeva che in economia, come in natura, si alternassero le stagioni d’espansione e di contrazione, ed ecco la crescita senza scosse dell’economia degli Stati Uniti, che sperimenta in venti anni solo due modeste recessioni, nel 1990 e nel 2002. Insomma, fino all’estate del 2007, gli scettici stavano sulla difensiva ed assistevano alla marcia trionfale del modello di sviluppo della “finanza globale”, il nuovo idolo che, compiaciuto, passava tra le ali di folla cinto d’alloro. Appena un anno e mezzo dopo, gli interventi statali, volti a salvare il sistema finanziario, sembrano la sola via d’uscita per evitare una crisi economica grave.
 
Fino all’estate del 2007 erano molto pochi quelli che suonavano il campanello d’allarme. Fra questi, un “think tank” di New York, il Levy Economics Institute. Qui lavorano i pochi seguaci di Hyman Minsky, un economista morto senza fama popolare. Discutevano il limite del modello di crescita centrato sul debito privato. Un “think tank” di New York, il RGE, di Nouriel Rubini e Brad Setser, delineava i limiti crescita del sistema centrato sull’emissione del debito pubblico sottoscritto dai paesi in via di sviluppo. Infine, qualche cenno critico, ma senza allarmi, nelle Relazioni del Fondo Monetario e della Banca dei Regolamenti. Oggi citare Minsky è chic, soprattutto se si dice “il Minsky moment”. Roubini è diventato famoso, con gergo religioso diremmo come “profeta di sventura”, con gergo finanziario come “Dr. Doom”, menagramo. Quelli che scrivono “per le masse”, come Naomi Klein, non prevedevano lo svolgersi di una crisi, ma denunciavano gli aspetti negativi del modello di sviluppo. Per rendere convincente la denuncia, questa letteratura segue la narrativa del complotto, che, mettendo a fuoco uno schema semplice, ordina le cose. I problemi del mondo hanno una spiegazione: essi dipendono dalle malefatte della scuola di Chicago. Fuori i nomi: in campo economico, Milton Friedman e seguaci, i liberisti, in campo politico, Leo Strauss e seguaci, fra questi i famigerati “neocon”.
 
Quasi tutti assistevano alla cavalcata del nuovo idolo, la finanza globale, chi plaudendo felice, chi fischiando risentito: quasi nessuno si aspettava un capovolgimento delle fortune così repentino. Nemmeno chi stava ai piani alti dei grattacieli. Fra il comportamento sicuro nella primavera del 2007 ed il comportamento fantozziano (sic) dell’autunno del 2008, c’è un intero universo. In un fine settimana di settembre, i massimi dirigenti delle massime imprese finanziarie degli Stati Uniti sono riuniti presso la banca centrale per negoziare il salvataggio di un’impresa d’assicurazioni, la AIG. Non trovano un accordo per salvarla, senza intervento pubblico. Escono nervosi, sapendo che le cose si possono mettere male. Dicono agli autisti di andare via veloci. Le limousine nere con vetri oscurati escono tutte insieme dal cortile della banca centrale. All’uscita si bloccano subito a vicenda, ma bloccano anche il traffico domenicale dei comuni mortali. Le guardie della banca centrale intervengono, dirigono il traffico, ed i potenti, scompaiono, inghiottiti dai problemi che verranno. Questa scena, fantozziana, raccontata dall’economista Paul Krugman sul suo blog ospitato dal New York Times, non è entrata nella memoria collettiva, com’è avvenuto per quella degli impiegati della banca Lehman, che uscivano dal grattacielo con il passato rinchiuso in una scatola di cartone.
 
Perché tutti, i potenti e gli umili, si trovano a che fare con degli eventi inattesi che, man mano che emergono, sono sempre più gravi. Una spiegazione, chi scrive non crede nei complotti ma nei sistemi pieni di casualità, è che i mercati finanziari assomigliano alla pesca con la dinamite.
 
·         All’inizio emergono solo i pesci piccoli, i mutui ipotecari di bassa qualità, i famigerati sub prime, e tutti sono contenti, perché si vedono dei danni contenuti. Quel che è successo da luglio ad ottobre 2007. Dalle dichiarazioni rassicuranti sul contenimento della crisi di Ben Bernanke, il governatore della banca centrale statunitense, all’ascesa dei prezzi delle azioni fino ad ottobre, questo era il punto di vista della maggioranza.
 
·         Poi emergono i pesci grossi, le finanziarie che avevano comperato i mutui impacchettati sotto forma d’obbligazioni, chi si trovano con delle attività che valgono meno. Quello che è successo da ottobre 2007 a settembre 2008. Ecco allora gli interventi della banca centrale statunitense, a gennaio, quando la banca francese Sociètè Generale entra in crisi, a marzo, quando fallisce la banca statunitense Bear Stearns, a settembre, quando sono salvate le società che finanziano i mutui ipotecari, Fannie Mae e Freddie Mac, poi quando è lasciata fallire la banca Lehman, infine, quando è salvata la società d’assicurazione AIG.
 
·         Alla fine emergono quelli grossissimi, il modello di crescita trainato dai consumi delle famiglie, a sua volta alimentato dalla crescita dei prezzi degli immobili. Con l’arrivo di questi ultimi, le balene, si apre la porta agli interventi pubblici, proprio quello che sta succedendo in queste settimane.

Prima di arrivare all’intervento pubblico, va ricordato il modello di crescita degli ultimi anni. La caduta del settore immobiliare è il motore della crisi in corso, perciò la domanda è: quando nasce la “questione immobiliare”? Siamo nel 2001 e l’economia sta rallentando negli Stati Uniti. L’11 settembre non è arrivato, e dopo l’evento, sull’onda dell’emergenza, le decisioni saranno prese con maggior tempestività. Il bilancio pubblico è portato in disavanzo, da che era in avanzo. I tassi d’interesse sono schiacciati a livelli minimi. Si ha una spinta di carattere fiscale e monetario. L’economia degli Stati Uniti si riprende. Il cuore della ripresa, dal 2001, è nel settore immobiliare che spinge i consumi privati. La discesa dei tassi d’interesse riduce il costo dei mutui ipotecari, che sono rinegoziati a tassi inferiori. Si libera una quota di reddito che prima andava a pagare gli interessi, che è spesa per consumi. Gli immobili salgono di prezzo sia perché tutti li vogliono, sia perché sono un’attività finanziaria lunga, come le obbligazioni. (Le attività finanziarie che erogano una cedola, come le obbligazioni, o un affitto, come gli immobili, salgono di prezzo, quando i tassi scendono). Salendo di prezzo, gli immobili possono garantire l’accensione d’altro debito. Il debito sale, ma con i tassi che scendono ed il reddito delle famiglie che sale, grazie alla ripresa, gli oneri finanziari restano stabili. Le famiglie si possono indebitare quasi senza problemi. Man mano che il prezzo degli immobili sale, diventa difficile che possa salire ancora. Se, infatti, il prezzo degli immobili va alle stelle, conviene affittare casa e non comprarla. Da qui il movimento in discesa dei prezzi. La discesa del prezzo degli immobili mette in forse le garanzie accese a fronte del debito emesso a favore delle famiglie. E le cose s’avvitano.
 
Oggi non è possibile rilanciare l’economia statunitense attraverso i consumi trainati dal prezzo degli immobili. Siamo all’intervento pubblico. Una volta che la discesa dei tassi d’interesse non funziona, si pensa alla spinta fiscale, ossia ad una combinazione di spese ed imposte, in grado di stimolare l’economia reale. Il punto di cui si discute non è questo. Si discute nientemeno dell’intervento pubblico per salvare il sistema finanziario. Insomma, l’economia reale si riprende, se si risana quella finanziaria. Fra non molto, forse, avremo negli Stati Uniti un’economia in cui il sistema finanziario (quello bancario, assicurativo e dei mutui ipotecari, con l’esclusione delle banche di credito ordinario) è tornato in qualche misura statale. Vediamo come sorge il problema ed i percorsi per la sua soluzione. Il percorso quando si è “inceppato” ha spinto all’ingiù la borsa statunitense di quasi il 10%.
 
Le perdite sulle attività finanziarie potrebbero arrivare fino a mille miliardi. Facciamo che siano 500, il ragionamento è lo stesso. Cambia la scala, ma non la sostanza. Discutiamo il piano di salvataggio con le sue varianti. Il piano di Paulson, il ministro del Tesoro, che è stato bocciato alla prima discussione, ma che potrebbe essere ripreso.
 
Il percorso del “socialismo per i ricchi”. Nasca un organismo con lo scopo di assorbire 500 miliardi di dollari di obbligazioni cattive (=OC). Il Tesoro emette 500 miliardi di obbligazioni buone (=OB) e, con il denaro ricavato, finanzia questo organismo, che assorbe 500 miliardi di OC, ma a quale prezzo? Quello facciale? In questo caso, le finanziarie, che vendono le OC, tornano sane com’erano all’inizio della crisi ed il nostro organismo ha le OC in portafoglio. Quanto valgono veramente? Valessero 500 miliardi la crisi non sarebbe scoppiata! Valgono evidentemente di meno. Facciamo che valgano la metà. Il nostro organismo pubblico perde 250 miliardi di dollari. Il Tesoro, che ha emesso 500 miliardi di OB, si trova con 250 miliardi di dollari in meno. Lo Stato, quindi i cittadini viventi e nascituri che pagano le imposte e quindi le cedole delle OB, si è accollato le perdite ed i privati non hanno perso nulla.
 
Il percorso “dell’equità”. Immaginiamo un percorso diverso, simile a quello seguito dalla Svezia, ai tempi della sua crisi bancaria, nel 1990. Nasca dunque quest’organismo, con lo scopo di assorbire le obbligazioni cattive (OC). Il Tesoro emette 250 miliardi di obbligazioni buone (OB) e, con il denaro ricavato, finanzia l’organismo che assorbe i 500 miliardi di OC al loro prezzo di mercato di 250 miliardi di dollari. Le finanziarie, che hanno vendono le OC, non tornano sane come erano all’inizio della crisi, perché debbono registrare le perdite di 250 miliardi. Se i privati non si presentano, allora il Tesoro deve emette altri 250 miliardi di OB per consentire al suo organismo di ricapitalizzare le finanziarie per 250 miliardi di dollari e diventa azionista delle banche. Lo Stato che si è preso le perdite, potrà sempre vendere le azioni delle finanziarie risanate, riprendendo quanto ha investito, mentre gli azionisti delle finanziarie medesime perdono i loro denari. Giustamente, visto che hanno sbagliato a scegliere i dirigenti che le gestivano.
 
Uno potrebbe dire che la crisi ha ormai raggiunto dei livelli di tale gravità che sono stati messi da parte i conclamati principi dell’economia di mercato. Sembra un’asserzione convincente, ma non lo è. I principi di mercato, posto mai che esista una loro definizione univoca, vanno interpretati con realismo: logico che per far funzionare le cose che non vanno, si intervenga. Torniamo alle idee di Keynes, che sosteneva che, proprio per salvare il liberalismo, si debba avere fantasia. Il settore finanziario diventa statale, se il Tesoro inietta fondi nel medesimo in forma di azioni. Il che avviene col Tesoro che si finanzia emettendo obbligazioni. Il Tesoro perciò raccoglie fondi sui mercati e li investe. Le sue obbligazioni chi le compra?
 
I paesi industriali asiatici, che esportano più di quanto importino, tengono il cambio col dollaro fisso (o semifisso), perché le loro banche centrali comprano attività finanziarie in dollari per evitare che questo si deprezzi. Fanno così per crescere attraverso il settore esportatore, che, diventando sempre più efficiente, modernizza le loro economie. Anche i paesi petroliferi tengono il cambio fisso (o semifisso) con il dollaro, e comprano attività finanziarie statunitensi. Perciò i disavanzi statunitensi si trasformano in crediti dei paesi emergenti industriali e petroliferi sotto forma di titoli di stato americani, o titoli assimilabili. Questi paesi sono delle autocrazie. Gli Stati Uniti sono indebitati non con il settore privato dei paesi democratici, ma con il settore pubblico dei paesi autocratici. Fatto non importante, fin quando la quota di attività finanziarie detenuta da questi paesi è modesta. Fatto che diventa un problema, quando la quota detenuta è notevole, come è oggi, più di un terzo del debito pubblico, circa un quinto del debito delle imprese che emettono obbligazioni per finanziare i mutui ipotecari. I maggiori creditori degli Stati Uniti sono i cinesi, con circa due mila miliardi di dollari. Se i paesi emergenti smettessero di comprare obbligazioni statunitensi, che nel futuro prossimo potrebbero essere offerte in misura maggiore per salvare il sistema finanziario, i loro rendimenti salirebbero, la borsa crollerebbe, insieme al dollaro. Avremmo in una scala maggiore la crisi asiatica e russa del 1997 e del 1998. Il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac ha avuto, fra le motivazioni, quella di sostenere il prezzo delle loro obbligazioni, detenute in parte dall’estero. Fosse quest’ultimo incorso in perdite, avrebbe potuto minacciare gli Stati Uniti sul fronte dei titoli di stato: “se mi fate perdere, ne compro di meno”. Va subito detto che la minaccia è reciproca: “se vado in crisi, esportate meno”.
 
Conclusione: il Tesoro degli Stati Uniti potrebbe comprare le attività finanziarie dubbie ed emettere debito (obbligazioni) per finanziare il loro acquisto. Le autocrazie comprano il debito del Tesoro, lo finanziano quindi, allontanandosi dalle attività dubbie che hanno negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, come entità statale, diventano i garanti delle attività dei propri privati. La autocrazie continuano ad accumulare crediti e gli Stati Uniti debiti. Non è una condizione di equilibrio di lungo termine, ma le nubi possono intanto diradarsi. Un mondo con meno mercato e più stato? Indubbiamente.

Articolo pubblicato da Diario, N 18, 3-16 ottobre 2008