Il 2015 sarà un anno decisivo per il Ttip, acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership, l’accordo che mira ad unire Europa, Canada e Stati Uniti in un grande mercato, con la convinzione che la riduzione o l’eliminazione delle tariffe doganali e la soppressione di norme e lungaggini amministrative, che di fatto impediscono ad un prodotto autorizzato in Europa di essere venduto anche negli Usa e viceversa, porterebbe benefici ad entrambe le economie.

Gli studi ufficiali parlano di ricadute positive per 120 miliardi di euro (pari a 545 euro per una famiglia media) per l’Unione Europea, mentre la valutazione per gli USA sarebbe di 95 miliardi di euro l’anno, pari a 655 euro per famiglia.

Le trattative avviate ufficialmente nel 2013 e che dovrebbero concludersi prima delle elezioni presidenziali, hanno seguito un modo di procedere che ha destato forti sospetti e reticenze tra cittadini e movimenti. Al punto che il Segretario di Stato Americano John Kerry, durante la sua ultima visita a Bruxelles, ha affermato che il trattato sarebbe vittima di un malinteso e che in realtà l'accordo ha l'obiettivo di innalzare al massimo gli standard di vita, visto che sembra l’unico in grado di contrastare la concorrenza delle economie emergenti e contribuire alla ripresa dell’economia americana ed europea.

Un’affermazione che non ha convinto chi vede nel Trattato un tentativo di sottrarre al processo democratico un accordo commerciale che intende essere molto più di un trattato di libero scambio. Tra questi il Premio Nobel Joseph Stiglitz[1], secondo il quale la rimozione degli ostacoli al libero scambio coinvolgerà anche le regole per la tutela dell’ambiente, della salute, dei consumatori e dei lavoratori, alimentando la spirale delle disuguaglianze sociali. Gli fa ecco John Hilary, direttore esecutivo della campagna internazionale War on Want, che parla di “minaccia transatlantica” destinata a piegare il pianeta agli interessi delle grandi multinazionali europee e americane.

Eppure fra teorie della cospirazione ed inevitabili allarmismi, rimane il fatto che autorevoli istituti internazionali hanno prodotto una serie di ricerche, convegni e pubblicazioni al fine di valutare l’impatto complessivo del trattato[2].

L’aspetto più controverso coinvolge il tema della sicurezza alimentare visto che negli Stati Uniti sono consentite pratiche di produzione alimentari vietate in Europa, come l’uso della candeggina per disinfettare polli o il trattamento della carne con antibiotici. Ed allora perché l’Europa dovrebbe acconsentire l'introduzione di cibi potenzialmente nocivi? Il Financial Times parla di paure irrazionali e rivolge un invito a leggere meglio i dettagli dell’accordo che prevedono l’etichettatura obbligatoria per tutti i prodotti che circoleranno nell’Euro-zona, quindi anche per quelli provenienti dagli Stati Uniti. Eppure una prospettiva che sembra poco realistica se si considera che in America i prodotti vengono venduti senza indicare la presenza di organismi geneticamente modificati. Un particolare che assume contorni inquietanti a seguito dell’inchiesta FAO, pubblicata nel 2014, sull’aumento delle contaminazioni da Ogm nel mondo.

Ma non è solo una questione di cibo.

Le normative americane risultano meno severe in materia ambientale, in particolare sulle emissioni di gas a effetto serra degli autoveicoli e sul contenuto di zolfo nella benzina. Mentre le preoccupazioni maggiori interessano il settore bancario. Si teme in sostanza che dopo le norme restrittive introdotte da Obama a seguito del crack della Lehman Brothers, un’armonizzazione della regolamentazione USA -UE nel settore bancario possa indebolire il controllo sugli istituti di credito e favorire la diffusione di quegli strumenti finanziari protagonisti della più grave crisi finanziaria del secondo dopoguerra. Si ha chi pensa che una maggiore concorrenza nel mercato del lavoro causerebbe in Europa un crollo dell’occupazione. Ecco uno studio rilasciato a fine ottobre dal Global Development and Environment Institute.[3] 

Ma è la cosiddetta ISDS, la clausola che fa più discutere. Secondo i sostenitori del trattato si tratta di strumento di diritto pubblico internazionale che permette agli Stati il ricorso all’arbitrato in caso di violazione dei termini dell’accordo. Per i detrattori invece tali clausole consentirebbero alle multinazionali americane ed europee di disporre di un potente mezzo per contestare una regolamentazione statale o comunitaria troppo stringente rispetto ai loro interessi strategici e corporativi.

Su un punto tutti sembrano comunque d’accordo: questo Ttip è un vero rompicapo. Allora come uscirne? Mentre il governo americano tace, la Commissione Europea ha appena annunciato di voler avviare una serie di consultazioni pubbliche con l'obiettivo di “illustrare più chiaramente l'oggetto dei negoziati, il loro impatto economico". Bisognerà attendere fine gennaio, con la pubblicazione dei cosiddetti “position paper”, corredati da dati statistici ed economici per valutare le vere intenzioni del Trattato.


[1] http://www.project-syndicate.org/commentary/transatlantic-and-transpacific-free-trade-trouble-by-joseph-e--stiglitz/italian;

[2] http://www.ceps.eu/book/impact-ttip-underlying-economic-model-and-comparisons

[3] http://ase.tufts.edu/gdae/policy_research/TTIP_simulations.html