1. Scriveva Platone che la bellezza è negli occhi di chi guarda. Probabilmente, se fosse vissuto ai nostri giorni, il filosofo greco avrebbe potuto affermare la stessa cosa anche per quanto riguarda le politiche di austerità. 

Dopotutto, quando un Nobel per l’economia è in grado di sostenere che gli Stati Uniti, negli scorsi due anni (deficit annuo sopra l’8% del PIL e spesa pubblica in crescita), abbiano implementato proprio quelle misure, allora non vi è più alcun limite al relativismo delle opinioni. Può essere utile, quindi, cercare di capire in quali accezioni sia utilizzato dai commentatori il termine austerity e poi verificare se effettivamente, in Europa, i problemi di crescita economica siano determinati dal perseguimento di quelle politiche. Del primo compito si occupa l’articolo di Riccardo De Caria, del secondo parleremo invece qui.

2. Seguendo questa linea guida, per “austerity in senso stretto” intenderemo quelle “politiche fiscali che mirano a raggiungere il pareggio di bilancio riducendo il peso dello stato nell’economia”: in pratica, quei tagli selvaggi di cui parla sempre Paul Krugman nei sui editoriali. A questo proposito, può essere interessante leggere quello del 29 Gennaio scorso, dove il Nobel di Princeton lanciava il suo anatema contro David Cameron, reo di aver pregiudicato la ripresa economica del Regno Unito riducendo la spesa pubblica. L’articolo proseguiva descrivendo come la Gran Bretagna degli anni ’30, quella in cui viveva John Maynard Keynes tanto per capirci, fosse riuscita a recuperare il livello di produzione del ’29 entro quattro anni dallo scoppio della crisi. Quella di Cameron, invece, condizionata dalla dottrina dell’austerità, è ancora ben lontana da questo traguardo. Si può essere così irresponsabili e gettare al vento 80 anni di progresso nella scienza economica?

3. Quando però si vanno ad osservare i dati (nell’editoriale del New York Times non sono presenti), si scopre una realtà ben diversa: la Londra di David Cameron è stata ben più generosa nella spesa pubblica di quella di James Ramsay MacDonald e anzi, quest’ultima offre proprio un perfetto case study per quanti affermano che tagli alla spesa e pareggio di bilancio siano un’ottima ricetta per uscire dalla crisi.

 

 

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Figura 1- Spesa pubblica (reale) e surplus/deficit di bilancio in Gran Bretagna
(1929-1934 e 2006-2011)

4. Che cosa ci dicono allora “i dati” riguardo alle politiche economiche degli altri paesi europei oggetto di critica? Nelle ultime settimane, a seguito dall’articolo “Fiscal Austerity in Europe doesn’t mean large spending cuts” di Veronique De Rugy, ricercatrice del Mercatus Center della George Mason University, si è scatenato un dibattito su quanto siano stati “austeri in senso stretto” i paesi dell’Eurozona. Le interpretazioni sono state molto differenti (pur partendo dagli stessi dati!) ma credo che questo grafico, che mostra l’evoluzione della spesa pubblica, al netto dell’inflazione, nei vari Paesi europei, possa essere utile per visualizzare che cosa abbia realmente significato la parola “austerità” in Europa.

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Figura 2 - Spesa pubblica reale, Fonte FMI

È questo il grafico che ci aspetteremmo di osservare in presenza dei “tagli selvaggi” alla spesa pubblica? Credo proprio di no (eccetto che per la Grecia). Quasi tutti i Paesi spendono di più, in termini reali, rispetto a prima della crisi. È quindi legittimo rigettare le tesi di Krugman: non sono stati i tagli selvaggi alla spesa pubblica ad aver fatto ripiombare i Paesi europei in recessione.

5. Se non vi è stata quindi “austerità in senso stretto”, che dire però della sua “definizione allargata” che mette nello stesso calderone riduzioni di spesa e aumenti nell’imposizione fiscale (il cosiddetto “approccio bilanciato”)? In questo senso, e solo in quest’ultimo, si può affermare che i Paesi europei abbiano imboccato la via dell’austerità, ma è una strada costellata di nuove tasse, non di tagli. Non dovremmo quindi stupirci se i Paesi che più hanno cercato di risolvere i problemi di bilancio aumentando le entrate sono anche quelli che ora hanno più difficoltà.

Il problema è però che chi protesta contro le politiche di austerity in Europa, dalle piazze alle colonne del New York Times, lo fa contro i presunti tagli alle spese, non contro le tasse; chiede più spesa pubblica, non meno. Utilizza impropriamente i fallimenti europei per rilanciare il vecchio mantra keynesiano per cui, in tempo di crisi, lo stato deve colmare il vuoto di spesa creato dal calo della domanda da parte del settore privato.

6. Ma tagliare la spesa in tempo di crisi è una politica fallimentare?

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale molti economisti keynesiani (Paul Samuelson in testa) predissero scenari apocalittici per l'economia se i governi avessero ridotto le spese ed eliminato il controllo dei prezzi. Dal 1944 al 1948 il governo federale americano tagliò la spesa di più del 60% abbassando contemporaneamente l’imposizione fiscale e passando da un deficit di più de 20% del PIL a un surplus del 4%. Il risultato fu una crescita economica spettacolare. Quella è l’austerity che ci auguriamo.