1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 223/2012 ha dichiarato illegittimi i tagli all'indennità dei magistrati e degli alti funzionari pubblici introdotti dal governo Berlusconi. La sentenza è stata accolta da molte critiche, ma anche da segni di approvazione. La faccenda merita dunque di essere approfondita, sia che si abbia a cuore la responsabilità fiscale dell’esecutivo, sia che ci si preoccupi di salvaguardare la concorrenza.

Partiremo dal punto che ci appare più semplice, ovvero la remunerazione degli alti funzionari “generici”, per poi affrontare quello più insidioso, la remunerazione dei magistrati.

2. Le disposizioni che riguardavano i funzionari pubblici stabilivano una riduzione del loro trattamento economico complessivo, prevedendo in particolare per tre anni, dal 2011 al 2013, una decurtazione del 5% per i compensi superiori a 90.000 euro, e del 10% per quella superiore ai 150.000 euro.

Dopo aver stabilito che non si trattava di un semplice taglio dello stipendio, ma di un'autentica imposizione fiscale, la Corte Costituzionale ha ritenuto illegittimo che essa fosse riservata ai soli pubblici dipendenti. In altri termini, la grave crisi giustifica l'imposizione di prelievi fiscali eccezionali, ma essi devono riguardare tutti i cittadini. Tanto più che, osserva la Corte, il «risultato di bilancio ... avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un “universale” intervento impositivo»: tassando anche i privati, lo Stato ci avrebbe guadagnato molto di più, e questa sarebbe stata l'unica alternativa costituzionalmente legittima.

Questa conclusione della Corte ha un potenziale dirompente: in pratica, la Corte sta trasformando in precetto costituzionale una scelta di politica economica, peraltro discutibile. Sta cioè dicendo che, per correggere i conti pubblici, non si può procedere (solo) con dei tagli al settore pubblico, ma occorre aumentare le tasse (anche) al ceto produttivo. La Corte invoca infatti l'uguaglianza di trattamento fiscale tra settore pubblico e privato, ma non si può ignorare che i dipendenti pubblici godono ad oggi di un trattamento normativo più favorevole rispetto a quelli privati (a cominciare dalla stabilità del posto di lavoro). Imponendo un trattamento fiscale uguale di situazioni diverse, di fatto la Corte discrimina a danno del privato.

In realtà, è la premessa stessa della Corte a suscitare perplessità, ovvero l'assimilazione del taglio ad un tributo. Infatti la Corte trascura che, da un punto di vista contabile, gli stipendi del settore pubblico non prevedono una reale imposizione fiscale: la differenza tra lordo è netto è a ben vedere una partita di giro tutta interna al bilancio pubblico. Mentre il dipendente privato ha uno stipendio lordo da cui viene realmente prelevata una quota a titolo di contribuzione fiscale, nel settore pubblico questo prelievo è soltanto un artificio contabile, essendo la somma destinata al pubblico dipendente unica, e venendo poi suddivisa in un netto e in una quota di contributi solo a fini di contabilità.

Ma se questo è vero (e non v'è chi possa negarlo, da un punto di vista strettamente tecnico), allora il taglio effettuato agli stipendi pubblici era davvero un taglio, ed è stato scorretto qualificarlo come tributo, semplicemente perché il settore pubblico tecnicamente non versa realmente tributi. Venendo meno la premessa del ragionamento della Corte, sembra dover venire meno anche la conclusione: altrimenti, come si è osservato, si rischia di giungere alla conclusione per cui gli stipendi pubblici non saranno mai più rivedibili, e l'unica via costituzionalmente legittima all'aggiustamento dei conti risulta quella dell'inasprimento fiscale. Una soluzione francamente inaccettabile, perché non si può pensare che le posizioni stipendiali del settore pubblico siano diritti acquisiti intangibili.

La Corte sembra voler trascurare la sostanziale differenza fra tassare un reddito prodotto da colui che viene tassato (come avviene per i redditi del settore privato) e ridurre un reddito pagato proprio tramite il prelievo fiscale sui redditi privati (come avviene per gli stipendi dei dipendenti pubblici). Ciò naturalmente non significa che professori, magistrati e molti altri pubblici dipendenti non svolgano un mestiere utile alla società, ma resta il fatto che il loro stipendio è pagato con le tasse versate dal settore privato, e dunque se si giunge alla conclusione che occorre tagliare la spesa pubblica e ridurre il livello di tassazione, gli stipendi pubblici non possono essere considerati intoccabili. E riesce difficile credere che la Costituzione imponga davvero di considerarli tali.

Più ostica è l'altra questione affrontata dalla Consulta, ovvero la remunerazione dei magistrati, che sono ovviamente dipendenti pubblici in una situazione tutta particolare: con riferimento al loro, caso, infatti, entrano in apparente rotta di collisione due principi altrettanto cari ai liberali, la meritocrazia e la separazione dei poteri. Qui la normativa impugnata aveva bloccato per un certo numero di anni l'adeguamento retributivo dei magistrati, ridotto la loro indennità giudiziaria e introdotto “tetti” al loro acconto per il 2014.

Confermando la propria giurisprudenza, la Corte ha ritenuto queste misure illegittime, considerandole eccessive rispetto alle esigenze di bilancio, e quindi lesive della garanzia costituzionale dell'indipendenza dei magistrati.

Il giudizio sull'incongruenza delle misure adottate con la reale situazione del bilancio pare viziato da un certo ottimismo sulla situazione dei conti pubblici italiani, che ha tutta l'aria di essere peggiore di quanto la Corte ottimisticamente ritenga. Ma la questione più complessa è un'altra: davvero l'indipendenza della magistratura richiede necessariamente progressioni di stipendio per mera anzianità, come implicitamente sostiene la Corte, difendendo la scelta della legge, «sulla base dei principi costituzionali», di mettere «al riparo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da qualsiasi forma di interferenza, che potesse, sia pure potenzialmente, menomare tale funzione, attraverso una dialettica contrattualistica»?

3. Il problema individuato dalla Corte è molto serio, e avvertito anche in altri ordinamenti: il fatto che «il contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore di tale rapporto» è particolarmente delicato quando il regolato è la magistratura, che ha come funzione primaria quella di vigilare sugli abusi del potere politico, e la cui indipendenza potrebbe venire davvero menomata se il potere politico potesse ridurre a piacimento il suo stipendio. Tuttavia, nel diritto costituzionale può accadere, e accade costantemente, che due principi altrettanto importanti entrino in conflitto (riservatezza e sicurezza pubblica; libertà di stampa e tutela dell'onore, etc.). I vari ordinamenti risolvono in modo diverso questo conflitto. Noi parliamo tipicamente di necessità di operare un “bilanciamento” tra le contrapposte esigenze.

Ebbene, nel caso di specie sembra di poter affermare che la Corte abbia privilegiato nettamente la sacrosanta indipendenza della magistratura, a scapito però dell'altrettanto fondamentale principio meritocratico, espressione del più generale principio di concorrenza. Un diverso bilanciamento sarebbe stato preferibile, in linea del resto con le scelte operate negli ordinamenti che hanno un modello di reclutamento e retribuzione simile al nostro, come quello francese, i quali danno spazio a una valutazione di merito nel decidere su almeno alcuni avanzamenti stipendiali, senza che ciò intacchi l'indipendenza dei magistrati. La Corte ha preso una strada diversa, forse anche alla luce del fatto che nel nostro Paese le minacce all'indipendenza dei giudici raggiungono in effetti livelli sconosciuti ad altri ordinamenti. Tuttavia, una maggiore considerazione del principio meritocratico sarebbe auspicabile: o perché lo si riconosce già pienamente operante a livello costituzionale, se pur non scritto, e quindi da includere nel giudizio di bilanciamento; o perché ancora non c'è, ma allora vi andrebbe inserito al più presto.