1. La fregata Libertad non è una barca qualunque. E’ una nave scuola di proprietà della marina militare argentina, non bella forse quanto la nostra Amerigo Vespucci, ma dotata di quel fascino che solo i velieri d’epoca possono vantare. La sua chiglia ha solcato le acque di tutti e quattro gli oceani ed è stata anche detentrice del record di velocità dell’attraversamento dell’Atlantico a vela.

La sua gloriosa storia sembra però essersi interrotta da quasi di un mese in un porto ghanese, bloccata dalle autorità locali assieme al suo equipaggio di 200 marinai: un fondo d’investimento americano (NML) ha approfittato della presenza di un bene dello stato argentino in un paese terzo per reclamarne il sequestro conservativo del bene. Il fondo, di proprietà della Elliott Capital Management, è infatti uno dei cosiddetti holdout creditors  che non ha accettato la rinegoziazione del debito argentino dopo il default  del 2001 (30 centesimi per ogni dollaro prestato). Non è la prima volta che uno di questi fondi adotta tattiche di questo genere per recuperare il proprio investimento. A nulla sono valse le proteste del ministro degli esteri Eduardo Zuain, che ha parlato di violazioni del Trattato di Vienna sull’immunità diplomatica: l’11 ottobre la Corte di Accra ha rifiutato il rilascio della nave, giudicando insufficienti le ragioni portate dall’Argentina.

2. Il fantasma del default del 2001 torna dunque a preoccupare Buenos Aires, in attesa  anche della pronuncia dell’ICSID (la Corte arbitrale della Banca Mondiale in materia di investimenti) sulla violazione del Trattato bilaterale sugli investimenti tra Italia e Argentina. In caso di sentenza avversa, lo stato Argentino rischia dover riconoscere un indennizzo ai 60.000 italiani che stanno portando avanti la causa.

Ma che dire dei fantasmi del default presente e del default futuro? Dopo la rinegoziazione, il rapporto debito/pil è ovviamente diventato molto basso (sotto il 50%), generando la falsa convinzione di una solidità economica che nei fatti non c’è. Vale la pena a questo punto chiedersi dove porteranno le politiche che l’Argentina sta varando da quando gli effetti negativi del default hanno iniziato a frenare la crescita del paese. Sta forse scivolando su una china pericolosa, che la porterebbe a ripetere gli errori passati? O ha finalmente trovato, come va dicendo in giro per il mondo Cristina Fernández de Kirchner, la terza via fra il social-populismo di Chavez e il neo-liberismo di stampo USA promosso dal Washington Consensus?

La domanda diventa ancora più attuale dopo il discorso che la Kirchner ha tenuto davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a fine settembre. In quella sede il Capo di Stato argentino ha risposto duramente all’ennesima reprimenda del FMI sull’inaffidabilità dei dati forniti.  Da tempo il Fondo utilizza per i suoi rapporti un indice dei prezzi calcolato da centri statistici indipendenti e non dall’Istituto di statistica nazionale (INDEC). Secondo quest’ultimo, infatti, l’inflazione argentina si manterrebbe intorno al 10%, contro il 25% calcolato da altre fonti. L’Economist afferma addirittura che l’INDEC fornisca di dati manipolati ad arte dal 2007. La solidità di queste accuse è verificabile dalla semplice evidenza che emerge leggendo la stampa argentina, che riporta ogni giorno il crescente malcontento della popolazione sul costante aumento dei prezzi dei beni di consumo, non potendo dimenticare l’iperinflazione di pochi anni prima. E del resto il pesante calo di consensi che sta subendo la figura politica della presidenta viene proprio da lì. Ciononostante, la Kirchner si è mostrata spavalda davanti all’Assemblea Generale, convinta probabilmente che la miglior difesa sia l’attacco. Dopo aver risposto per le rime all’infelice minaccia della Lagarde di mostrare all’Argentina il cartellino rosso se le cose non cambiano, la Kirchner riprende le accuse che il marito (presidente tra il 2003 e il 2007) aveva mosso, nella stessa sede, all’intero apparato del Whashington Consensus: le responsabilità per una situazione come quella argentina nel 2001 e come quella europea oggi non vanno ricercate solo negli Stati, ma (soprattutto) nelle politiche di liberalizzazione e austerità eteroimposte da questi organi sovranazionali. Il paese, dunque, non dovrebbe ripetere gli errori di un tempo, ma assumersi il coraggio delle sue scelte e portarle avanti per il bene del suo popolo.

In quest’ottica, anche le alte barriere alle importazioni elevate negli ultimi anni non vanno viste come «politiche protezioniste, bensì come politiche di difesa dei propri lavoratori e industrie contro i paesi che hanno causato la crisi».  Il tema della sovranità esalta l’orgoglio nazionale argentino, e anche la stampa più critica non riesce a non dedicare parole di elogio alla sicumera presidenziale. Ma i fatti sono comunque di fronte agli occhi di tutti: le misure doganali in entrata e uscita stanno avendo effetti devastanti su molti settori di punta dell’economia argentina. Addirittura la vendita di carne all’estero, eccellenza e simbolo del paese, è diminuita nell’ultimo anno di oltre il 25% facendosi superare dal Messico.

Ed ecco apparire il fantasma del default futuro. Da sempre gli argentini sono i campioni nell’accumulare dollari all’estero e questa propensione si acutizza quando il presentimento di una prossima crisi si manifesta all’orizzonte. La caduta delle esportazioni sta provocando un’insufficienza cronica di valuta estera nel paese, spingendo il governo a varare delle misure estremamente restrittive sulla compravendita di dollari per operazioni finanziarie, turismo, o a fini di risparmio. Dalla fine del 2011 le regole si sono fatte sempre più restrittive, rendendo assai fiorente un mercato nero di valuta, dove il “dollaro parallelo” ha un cambio superiore del 35% rispetto a quello ufficiale. E’ chiaro che questi provvedimenti abbiano contribuito ad approfondire la spirale inflattiva e aumentato anche le aspettative negative dei cittadini argentini, in un clima di crescente incertezza e sfiducia.

Nel frattempo il ministro dell’economia Kicillof giustifica i provvedimenti con la necessità di mantenere la valuta per comprare il petrolio, piuttosto che lasciarla ai più abbienti per acquistare beni di lusso.

E a proposito di petrolio, sempre invocando il principio di sovranità (questa volta energetica), non si può dimenticare la recente nazionalizzazione della YPF, la compagnia petrolifera sotto il controllo dell’iberica Repsol. In Italia i giornali non hanno dedicato molta attenzione alle immagini dei dirigenti spagnoli scortati fuori dalla sede della società dai funzionari militari, ma in altri paesi il messaggio involontariamente lanciato dal paese è stato recepito subito: per gli investimenti diretti esteri l’Argentina si pone al livello venezuelano, cioè un paese in cui la certezza del diritto non è affatto garantita, a partire dalla proprietà privata. Se negli ultimi anni l’Argentina registrava già difficoltà in questo senso, è evidente che la mossa della Kirchner non sia stata molto avveduta. Soprattutto quando si è resa conto che per guidare una grande azienda non basta la volontà, ma ci vogliono competenze e risorse. Dopo pochi mesi è stato chiaro che il piano di sviluppo di YPF per i nuovi giacimenti non poteva essere gestito dal governo o da qualche apparato burocratico. Così ha chiesto aiuto ai cinesi di Sinopec (fino ad aprile  potenziali acquirenti della quota spagnola della società), che però non si sono fidati.

3. Insomma, la situazione non è per nulla rosea, ma Cristina Kirchner sembra ostinarsi nel negare l’evidenza. Più di tante parole, il commento più graffiante sulla situazione argentina è stato fatto da un commentatore cileno (che ci consente di chiudere come abbiamo iniziato, con una nave): «L’Argentina è come la storia del film Titanic: due imbecilli si mettono assieme. Lui muore. La barca affonda».