Non si è mai così tanto parlato di Università come negli ultimi tempi. Ovviamente per parlarne male, solo per dirne peste e corna. Sui giornali è infuriato il gioco al massacro: concorsi truccati, professori fannulloni, moltiplicazione dei posti, ricerca scadente. Nulla di buono, nulla da salvare e tutto da rifare.

Ma nessuno ha tentato di spiegare anche l'altra faccia della medaglia, mettendo in luce alcuni problemi della carriera accademica che, se non affrontati per tempo, renderebbero vana ogni (pur necessaria) riforma. Come quella sui concorsi e sul reclutamento.

 

"La Casta" è salita in cattedra.
Che prima o poi la scure de "La Casta" colpisse l'Accademia c'era da aspettarselo. Che tutto fosse coinvolto e trascinato nel tornado accusatorio-qualunquistico di quel genere socio-letterario altrettanto prevedibile. Scontato, poi, che l'Istituzione fosse stritolata da personaggi più o meno noti che, a tutto concedere, l'hanno conosciuta in passato per acquisire quel "pezzo di carta" in seguito speso nei più variegati rivoli della notorietà mediatica.
Né ha stupito che tra gli accusatori più accaniti ci siano stati professori universitari.
L'autocritica è un buon segnale. Che le cose non vadano per il meglio è noto da tempo e il coraggio di dirlo apertamente indica che la categoria, per quanto se ne dica, è fondamentalmente sana e vitale.
Ciò che invece non s'è capito, è perché nessun universitario abbia sentito il bisogno/dovere di spendere due parole per prendere le distanze dalle generalizzazioni, facendo onesta e obiettiva opera di chiarificazione.
Quel silenzio ha stonato.
Senza cadere nella tentazione di fare una difesa punto su punto (i concorsi sono tutti truccati, i professori tutti senza meriti, fannulloni e intrallazzatori, ecc.), ci si soffermerà sulla questione della ricerca.

Non di sola ricerca vive il professore
Come molte attività umane e, forse, più di altre, la ricerca richiede tempo. A volte tanto, tantissimo tempo, persino una vita intera. Pertanto, per fare ricerca di qualità bisogna avere tempo per farla.
Parliamo di ciò che conosciamo. Per pubblicare un buon saggio giuridico ci vuole circa un anno di lavoro. Un buon libro due o tre, ma a volte anche cinque e più, soprattutto quando sono molte le discipline coinvolte e le fonti da consultare.
In quei periodi di tempo, il docente universitario italiano (ricercatore o professore che sia) non può dedicarsi alla sola ricerca, ma deve anche occuparsi della didattica: tenere lezioni (quando va bene 3-4 corsi all'anno, per un totale di 120-150 ore) e seminari per gli studenti, seguirne le tesi, fare gli esami e le sedute di laurea, ecc.
Altro fronte di impegno è l'attività di organizzazione e gestione dell'Università: partecipazione a consigli di dipartimento e di facoltà, comitati e altri organi collegiali vari ed eventuali.
Infine, il docente deve altresì curare l'aggiornamento partecipando a convegni, tavole rotonde, presentazione di libri, ma anche svolgendo una continua attività di studio su argomenti che spesso eccedono il tema oggetto della ricerca principale condotta per redigere l'output scientifico.
Per quest'ultimo, dunque, nell'arco della settimana lavorativa rimangono disponibili in media uno-due giorni.
Pertanto, ammesso e non concesso che il livello della ricerca italiana sia così infimo come si è letto in questo mesi, alla luce di quanto visto anziché allo scandalo, bisogna urlare al miracolo. Perché è davvero un miracolo che alle descritte condizioni si possa comunque parlare di "ricerca italiana". Ma non si tratta di un miracolo, a meno che in questo modo debba chiamarsi il fenomeno per cui il professore studia e scrive quando i normali lavoratori si riposano: dopo cena, sabato, domenica, vacanze e feste comandate.
Appare allora strano che per migliorare la ricerca delle nostre Accademie, la ricetta sia introdurre sistemi di valutazione della stessa più duri e selettivi, quasi coercitivi.
Ma perché a nessuno è venuto in mente di ridurre il carico didattico e l'impegno pro capite negli organi di governo universitario?
Il che, oltretutto, farebbe la felicità dei professori, la cui stragrande maggioranza ha iniziato la carriera accademica per amore dello studio e della ricerca e non per fare il jukebox didattico o applicarsi in esercizi di governance universitaria.

Non di sola ricerca può vivere il professore

Per fare ricerca ci vogliono i soldi. La pochezza dei finanziamenti per la ricerca universitaria è nota. Tutti la conoscono, però nessuno fa nulla per migliorare la situazione.
Un esempio? È assai frequente che, dopo averlo scritto, il docente debba pubblicare a sue spese il libro scientifico frutto del lavoro di anni. Che non essendo spendibile sul mercato, gli editori stampano a patto che i costi siano sostenuti dall'autore (o, nei casi felici di fondi disponibili, dall'università/dipartimento di afferenza).
L'altra faccia della stessa medaglia è che la ricerca non paga.
Fuor di provocazione, il punto è che se il ricercatore, il professore universitario sono lavoratori come tutti gli altri e se fare ricerca è una parte del loro lavoro, allora dovrebbero essere pagati per farlo (e non, come visto, pagarselo).
Invece gli incentivi sul punto non esistono. Lo stipendio base di un ricercatore è 1.200 euro; quello di un associato 1.900; quello di un ordinario 2.400. E prima di diventare ricercatore (ci vogliono dai dieci anni in su), il tutto è a titolo di puro volontariato, o al più con precari assegni di ricerca e borse di studio. Del tutto logico che molti laureati di valore siano disincentivati a iniziare una carriera così lunga e poco remunerativa.
Torniamo alla ricerca. Oltre alla passione e, se tutto va bene, alla notorietà, l'incentivo a farla è uno solo: la progressione di carriera. Il che fa capire il motivo per cui gli ordinari producono percentualmente meno degli altri. Anche perché, giunti al culmine della carriera, entrano nel turbine della gestione e organizzazione universitaria e il tempo da dedicare all'attività scientifica si assottiglia sempre più.
Infine, bisogna considerare che a fronte di stipendi tanto bassi, il mondo professionale funge da calamita. In quell'ambito, l'elevato grado di conoscenza di cui è dotato un professore universitario è fonte di soddisfazioni economiche notevolmente superiori a quelle del suddetto stipendio. È per questo che molti docenti finiscono con l'aprire (o con il collaborare con) studi professionali. Anche se i più sarebbero felicissimi di dedicarsi all'insegnamento e alla ricerca in via esclusiva e vivono il lavoro professionale come necessario sacrificio per fare fronte ai costi e alle giuste ambizioni della vita.
Il paradosso è che le prime a essere felici dell'impegno a tempo determinato del docente sono le stesse Università: in questo modo, infatti, dimezzano lo stipendio, con significativi risparmi di spesa.
In queste ultime settimane si è molto parlato di modificare la disciplina sul reclutamento universitario. Ma se non si mette mano anche a una seria riforma della carriera accademica, va a finire che ci saranno bellissimi concorsi, senza più candidati.