Uno dei mali che affliggono l’Italia è il ‘nanismo’ di cui soffre il sistema industriale. A questo problema potrebbe porre rimedio lo sviluppo di network d’impresa. Queste reti, non presupponendo la formazione di nuovi soggetti giuridici, preservano l’identità spesso familiare delle piccole aziende pur concedendo loro i vantaggi competitivi e di scala caratteristici delle grandi imprese.

1. Nel mese di dicembre 2012, il Parlamento ha convertito in legge, con mod­i­fiche, il Decreto Legge 18 otto­bre 2012 n. 179 recante “Ulte­ri­ori mis­ure urgenti per la crescita del paese”. Tali misure prevedono un nuovo assetto per il contratto di rete, forma giuridica nata nel 2009 che consente alle imprese di sviluppare network mantenendo la propria individualità, ma regolando i rapporti giuridici derivanti da una collaborazione stabile basata su obiettivi strategici.

Con il contratto di rete viene offerta alle imprese la possibilità di conseguire contemporaneamente tre importanti obiettivi: avviare collaborazioni su programmi condivisi, monitorabili e verificabili; consentire agli altri attori economici e alla pubblica amministrazione di conoscere e valutare queste iniziative; mantenere l'autonomia imprenditoriale, elemento culturalmente fondamentale per molte piccole e medie imprese, in quanto il contratto di rete non crea un nuovo soggetto giuridico.

In particolare, Confindustria identifica delle azioni che reputa cruciali per il pieno sviluppo della formula e l’adesione da parte delle imprese al contratto di rete, azioni individuabili in 5 punti programmatici che riguardano: semplificazioni amministrative, lo statuto delle imprese, le politiche attive per il lavoro, sgravi fiscali, portare i contratti di rete nella UE.

Il ‘nanismo’ industriale. La competitività della nostra industria risente della frammentazione dell’attività economica in un numero elevatissimo di piccole imprese: il 95% di queste ha meno di 10 addetti, mentre più del 60% non ne ha neanche uno. La dimensione delle imprese italiane afferenti al settore dell’industria e dei servizi è, in media, pari a circa il 60% di quella degli altri paesi dell’Unione Europea ed è particolarmente basso, sempre in Italia, il peso delle aziende di media dimensione. Le ridotte dimensioni aziendali conferiscono elasticità al sistema industriale del nostro paese, ma rendono più difficile lo sviluppo di prodotti e tecniche innovativi, limitandone l’efficienza.

Oltre ad un problema di efficienza e competitività economica vi è poi anche un problema di occupazione più in generale: più l’impresa è di ridotte dimensioni, minore sarà la sua possibilità di assumere forza lavoro. Se, da un lato, le piccole imprese hanno fornito negli ultimi anni un contributo considerevole allo sviluppo economico italiano, è pur vero che, ora, la frammentazione inizia a incidere in modo negativo sulla capacità di crescita del tessuto imprenditoriale e si trasforma da opportunità in vincolo. È il fenomeno del ‘nanismo’ industriale quello che coinvolge il nostro tessuto economico: la microimprenditorialità diffusa come modello prevalente nell’industria italiana.

Le cause del ‘nanismo’ industriale sono differenti e si esplicitano con differenti livelli di intensità. Esse riguardano in particolare: 

·       Un sistema imprenditoriale, in prevalenza di tipo famigliare, in cui la gestione e il controllo aziendali sono quasi sempre in mano ai soli membri della famiglia. Se le aziende restano famigliari queste non si managerializzano e non crescono di dimensioni. La naturale attitudine dell’imprenditore italiano è quella di prediligere la gestione di un’impresa di ridotte dimensioni nella speranza di non rischiare la ricchezza personale accumulata. In questo modo, tuttavia, l’imprenditore tende a non migliorare le proprie competenze manageriali e a non modificare il modello di gestione adottato non delegando responsabilità e poteri a manager professionisti e non coinvolgendo soci terzi.

·       Una legislazione del mercato del lavoro che a lungo nel tempo ha agevolato le aziende con un numero di dipendenti fra i 15 e i 35, soglia oltre la quale il mercato presenta maggiori rigidità e, allo stesso tempo, un sistema di autorizzazioni farraginoso, con tempi lunghi di attuazione e scoraggiante eventuali ampliamenti di stabilimenti, ammodernamenti e investimenti in generale.

·       La presenza prevalente delle imprese in settori che attraversano una fase di maturità, condizione che preclude le possibilità di sviluppo e crescita.

·       I mutamenti tecnologici, spesso affrontati con ritardo rispetto agli altri paesi europei e in modo inefficace.

Queste sono solo alcune delle variabili che determinano il manifestarsi del ‘nanismo’. È interessante notare, tuttavia, come il ‘nanismo’ non sia una malattia solo italiana. In effetti che l'Italia abbia un tessuto economico costituito in larghissima maggioranza da piccole e medie imprese è cosa nota, meno noto è il fatto che anche gli altri Paesi Europei siano caratterizzati da un contesto produttivo per molti versi comparabile con quello del nostro paese.

Il “piccolo” fa la parte del leone in tutto il vecchio continente: il 99,8% delle imprese europee ha meno di 249 occupati, che assorbono il 67,4% dell'occupazione e ben il 91,8% di esse ha meno di 9 addetti. La distribuzione delle imprese nazionali, così fortemente sbilanciata verso la dimensione minore, è una delle cause della minore produttività media del nostro tessuto produttivo: 43,2 mila euro di valore aggiunto per addetto che ci pongono sotto la media di Paesi come Germania, Francia e Regno Unito. Ma in realtà, secondo la Commissione europea, le PMI italiane vanno paragonate soprattutto alle omologhe dei Paesi del cosiddetto Gruppo II (Cipro, Finlandia, Francia, Grecia, Malta, Portogallo, Spagna e Svezia). In queste nazioni le piccole e medie imprese hanno a che fare con una serie di criticità: ad esempio, l'amministrazione pubblica è scarsamente ricettiva in Spagna e in Italia, mentre si registra in Grecia, Italia e Portogallo una difficoltà significativa nell'accesso alla finanza. In Grecia e Spagna vi è infine uno scarso utilizzo delle opportunità offerte dal Mercato unico. Al contrario, le PMI finlandesi e svedesi si distinguono per le forti competenze e capacità innovative nonché per l'accesso alla finanza.

2. Sebbene molti piccoli imprenditori ritengano che l’aggregazione fra imprese sia una possibilità praticabile solo dalle aziende di medie e grandi dimensioni, questa convinzione non è veritiera. Sono in effetti proprio le piccole imprese quelle che, in un sistema economico sempre più mondializzato, hanno bisogno di aggregarsi per competere con efficienza sia sui mercati nazionali che su quelli internazionali. Tramite l’aggregazione un’azienda può infatti trarre beneficio da ulteriori competenze e specializzazioni che non le sono proprie, ma che può acquisire dalle imprese che invece le possiedono, generando in tal modo una virtuosa circolazione del sapere, producendo innovazione e irrobustendo la propria struttura.

Vi sono diversi strumenti che consentono alle aziende di aggregarsi; si tratta di  forme pre­viste dalla legge, giuridica­mente ril­e­vanti, accordi con i quali gli impren­di­tori si alleano, in maniera occasionale o sta­bil­mente, in tutto o in parte, per rendere formale un’aggregazione allo scopo di fortificarsi e aumentare la competitività. Fra questi strumenti annoveriamo: i contratti di rete, i contratti di consorzio, le joint ventures, i distretti industriali, le asso­ci­azioni tem­po­ranee d’impresa ATI, il Gruppo Europeo d’Interesse Eco­nom­ico GEIE. È sulla prima di queste forme aggregative che in questa sede concentreremo l’attenzione.

Superare il ‘nanismo’ attraverso la formazione di reti.  Con il con­tratto di rete, introdotto dall’articolo 3, comma 4 ter del D.L. 10 feb­braio 2009 n. 5, “più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa. Il contratto può anche prevedere l’istituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l’esecuzione del contratto o di singole parti o fasi dello stesso”.

È di interesse notare che, rispetto al distretto industriale, definito quale entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali (G. Becattini, Modelli locali di sviluppo, Bologna: Il Mulino, 1989), tra loro col­le­gate medi­ante un’articolata rete di inter­re­lazioni sia di carat­tere eco­nom­ico che sociale, con il contratto di rete viene a cadere il vincolo della vicinanza territoriale, rendendo in questo senso le imprese più libere di fare rete con altre anche decisamente distanti sul territorio.

Le nuove modifiche, recentemente proposte, sono pensate per aggiustare il tiro in merito alla legge sui contratti di rete. Come sottolinea Marcella Panucci, Direttore Generale di Confindustria, sono state recepite delle criticità che avevano comportato difficoltà nella fase di applicazione, ricezione che si è tramutata in provvedimenti recenti che hanno cambiato i riferimenti normativi della legge.

In particolare, ci si riferisce alla norma che ha chiarito che la soggettività giuridica della rete è una facoltà e non un elemento qualificante. Inoltre, l'eventuale scelta di essere soggetto giuridico con le regole attuali potrebbe generare contenziosi sui profili civilistici e tributari, questione che si è cercato di superare. Sono importanti, secondo la Panucci, anche le nuove norme che consentono alle reti di partecipare alle gare di appalto, così come ai bandi comunitari. Sullo strumento dei contratti di rete Confindustria aveva puntato già a partire dal 2009, un anno prima cioè che tali misure venissero regolamentate sul piano legislativo, e lo aveva fatto spinta proprio dalle esigenze del mondo imprenditoriale.

Lo sviluppo di questa formula e la sua diffusione sul territorio è stata voluta anche dalle imprese stesse per promuovere collaborazioni con altre associazioni, categorie, istituti di credito. Come accennato prima, con questo strumento si cerca inoltre di superare la logica del vecchio distretto, non avendo la rete un criterio territoriale: si possono così unire aziende anche distanti, ma con un obiettivo comune. Da qui il passo è breve: allargare il raggio all'Europa. Non solo, sempre la Panucci sottolinea la necessità di potenziare l'utilizzo dei contratti di rete attraverso il progetto Work In Network;  rifinanziare l'agevolazione fiscale e innalzarne la soglia per i progetti dedicati all'internazionalizzazione; mantenere alta l'attenzione sulle risorse messe in campo dalle Regioni in favore delle reti e approfondire lo sviluppo di nuove iniziative da portare avanti con le strutture territoriali.

Il contratto di rete già prevede la sospensione di imposta degli utili investiti con un plafond di 48 milioni di euro. Sempre secondo Confindustria questo va portato a 100 milioni per il prossimo triennio, innalzando il tetto da 1 milione di euro per impresa per anno a 2 milioni per le reti votate all'internazionalizzazione. Sarebbe infine auspicabile l’inserimento del contratto di rete all’interno della programmazione comunitaria 2014-2020, allo scopo di permettere l’accesso delle reti a fondi strutturali e altri finanziamenti.

3. Attualmente sono più di 500 i contratti di rete che sono stati sottoscritti e che coinvolgono quasi 3.000 imprese in Italia. Il dato positivo è che questi contratti sono in continuo aumento. L’obiettivo che si è prefissa Confindustria, quello del raggiungimento dei 2.000 contratti di rete entro maggio del 2016, è ambizioso. Indubbiamente il contratto di rete si è rivelato finora, seppur con alcune criticità poc’anzi descritte, quale strumento efficace per aumentare la performance delle aziende italiane, con l’effetto positivo di aiutare a combattere il ‘nanismo’ industriale: come sottolinea Giuseppe Tripoli, garante per le PMI del Ministero dello Sviluppo, le imprese che hanno sottoscritto un contratto di rete mostrano di avere, in effetti, un miglior posizionamento strategico in termini di brevetti, maggiori investimenti esteri e più numerose certificazioni di qualità. In questo senso i contratti di rete costituiscono uno strumento nelle mani delle imprese in grado di permettere loro di competere sul mercato globale con maggiore efficacia.

L’aggregazione tra aziende attraverso la rete si rivela utile anche per risolvere il prob­lema dell’eccessivo indi­vidualismo che pervade il nostro sistema imprenditoriale, una delle cause, appunto, del ‘nanismo’. L’aggregazione delle PMI può favorire una proficua cooperazione in vista di proposte comuni, in coal­izione, di prog­etti indus­tri­ali e com­mer­ciali di pen­e­trazione dei mer­cati esteri, anche attra­verso parte­ci­pazioni a fiere inter­nazion­ali, incre­mentando l’export del sis­tema pro­dut­tivo italiano. Ci pare che le linee di condotta adottate da Confindustria per poter favorire l’applicazione di questo strumento siano positive e indubbiamente utili al fine di sbloccare un sistema imprenditoriale ancora troppo ripiegato su se stesso.

Tuttavia crediamo che, per meglio ottenere questi obiettivi, sia imprescindibile e necessario un ulteriore passaggio: l’attuazione pratica di questa legge e delle sue relative modifiche in corso d’opera deve viaggiare di pari passo con una maggiore informazione. È necessario sensibilizzare una volta di più le aziende sull’importanza che ha l’aggregazione: oggi per essere competitivi sui mercati nazionali e internazionali bisogna crescere e l’approccio di filiera può costituire un modello vincente di aggregazione tra imprese. In questo senso la cooperazione potrebbe portare allo sviluppo non solo delle singole aziende, ma di tutto il sistema imprenditoriale e, di conseguenza, economico del  nostro paese: un obiettivo, questo, ancora più ambizioso.