L’attuale crisi economica, ripercuotendosi sulla vita politica, dà luogo ad una vera e propria costellazione di “piccole crisi” tutte interne ai singoli stati. Questo è vero sia per gli Stati Uniti che per l'Europa, la quale, a sua volta, è scossa da una doppia tensione: quella tra le politiche dei singoli stati e le procedure interne dell'Unione Europea. È da quando sono finiti i “ruggenti anni novanta” - per usare la graffiante definizione di Joseph Stiglitz - che gli osservatori paventano ricadute interne delle crisi globali.

Già nel 1998, in Achieving Our Country, il filosofo Richard Rorty avvertiva i fautori del cosiddetto “internazionalismo liberal”, di ricominciare a prestare attenzione ai problemi interni della nazione. Si era dato troppo peso, in quegli anni, ai problemi dei paesi in via di sviluppo, ai quali ci si era rivolti tramite il metodo della “persuasione morale”, mossa dagli ideali “postmoderni” del multiculturalismo, che prescindevano dai tanti disagi interni degli Stati Uniti. Alla lunga, ammoniva il filosofo, i “lavoratori americani” avrebbero potuto ribellarsi a questo stato di cose. Ancora più interessante è notare come, a supporto di tale scenario, Rorty citasse anche le analisi del realista conservatore Edward Luttwak, il quale già nel 1993, prospettava una “terzomondizzazione” dell’America e, più in generale, del sistema economico dell’occidente. Rorty si concentrava in modo particolare sulla previsione fatta da Luttwak secondo cui la crisi avrebbe potuto portare al fiorire di movimenti populistici e perfino di stampo “fascista”. A questo riguardo varrebbe forse la pena di rileggere le considerazioni di Luttwak alla luce dell'attualità politica (cfr. Edward N. Luttwak, Cera una volta il sogno americano [1993], Milano, Rizzoli, 1994).

1. Ciò che emerge chiaramente dalle analisi di Luttwak è la differenza fra i rischi che corrono gli Stati Uniti e quelli che corrono i paesi europei. Se al di là dell’oceano questi pericoli sono legati all'infrangersi del mito tutto americano della classe media, in Europa la questione è più complessa. Si va infatti dai populismi che scaturiscono da atteggiamenti di tipo xenofobo, come furono quelli di Jörg Haider in Austria e Pim Fortuyn in Olanda, ai “neofascisti” di Alba Dorata in Grecia, rinvigoritisi in seguito alla crisi del debito pubblico.

Meriterebbe un discorso a parte Beppe Grillo e il suo Movimento 5 Stelle, che originano, invece, dalla peculiarità della situazione italiana, fatta di corruzione, clientelismo e scarsa mobilità della cosiddetta “casta”. I nuovi media digitali hanno giocato un ruolo importante nell'emergere di questo fenomeno; va però anche detto che l'idea di un “continuo plebiscito sul futuro”, in particolare tramite le tecnologie elettroniche, non proviene né dal comico genovese, né tantomeno dalla Casaleggio Associati s.r.l.

L’aspirazione di poter “andare verso la gente” (“go to the people”) fu elaborata, fin dagli anni Settanta e Ottanta, dal sociologo americano Alvin Toffler. Fu poi adattata ad esigenze di natura elettorale in alcuni tentativi di politica populistica negli Stati Uniti, messi in atto da Newt Gingrich, portavoce repubblicano della Camera dei Rappresentanti negli anni di Clinton (che di Toffler fu allievo) e dal candidato alle presidenziali Ross Perot. Se furono proprio questi i fenomeni che fecero “drizzare le antenne” a Rorty e a Luttwak (ma anche, negli stessi anni, al teorico dell’informatica italo-argentino Tomás Maldonado), è evidente che essi non ebbero però effettivo seguito negli Stati Uniti.

L’abilità di Grillo e Casaleggio è consistita nell’aver saputo coniugare il populismo con istanze che con il populismo non hanno niente a che vedere; si pensi all’ecologismo, all’utilizzo in diverse occasioni del linguaggio degli esperti di economia, ma anche alla retorica della “decrescita”, concetto sviluppato dall’antropologo economico Serge Latouche. Ad una prima analisi, il successo del populismo a 5 Stelle è da ricercarsi principalmente nella strategia del pastiche postmoderno, che bilancia ingegnosamente reclami alla portata di tutti con un sotto-testo di conoscenze, le quali rendono il leader simile ad un guru, a metà strada tra l’esperto e il sacerdote.

Il rischio del populismo negli Stati Uniti, come abbiamo già detto, era connesso fondamentalmente alla scarsa attenzione verso i problemi interni della nazione. Questa disattenzione si è manifestata, prima, sotto la bandiera del “nuovo ordine mondiale” di Bush senior e poi, nella forma della globalizzazione economica e del liberal internationalism di Clinton. Basti pensare come, per reazione, la campagna presidenziale repubblicana del 2000 fu proprio improntata alla preminenza dell’interesse nazionale contro tali prospettive internazionaliste. Un vero e proprio manifesto di questa spinta è costituito da un articolo di Condoleezza Rice, comparso sul numero di gennaio/febbraio di quell'anno di Foreign Affairs (pp. 45-62). A trascinare ancora una volta gli Stati Uniti sullo scacchiere mondiale furono gli attacchi terroristici dell’11 settembre.

Se poi la crisi economica portata dal bubbone dei subprime mortgages ha ricondotto l’America  verso una maggiore attenzione verso gli affari interni e a voler “mutare corso”, la situazione non ha però portato la rabbia dei movimenti di popolo (Occupy Wall Street su tutti) a fondersi con i rimedi di ordine politico. Si tratta di un segno evidente della maggior solidità della politica statunitense rispetto alle potenziali infiltrazioni di marca populistica: queste infatti, attecchiscono tradizionalmente nei contesti poco aperti alle relazioni con il resto del mondo, o tendono comunque a istituire situazioni di isolamento e autarchia. Un momento di impegno rivolto alle proprie casse e alle proprie ferite può dunque essere terreno fertile per tali fermenti. Tuttavia, nonostante il persistere nel paese di una certa tendenza all’isolazionismo e di una certa  diffidenza verso gli “intellettuali” (sulla quale ha scritto pagine illuminanti lo storico Richard Hofstadter nel 1962), l’America non si è mostrata prona a eccessive demagogie e “istinti primordiali”.    

2. Oggi si registra, in America e in Europa, un atteggiamento diverso nei confronti dello scenario internazionale. Se la ripresa statunitense è testimoniata da un progressivo risorgere dell’attenzione alla politica estera, l’Unione Europea sta affrontando un momento difficile, in quanto appare chiaro, ai più, come molte materie risultino ingovernabili dalla macchina, assai complessa, delle istituzioni e degli organi dell’Unione. I rapporti tra stati membri si mostrano instabili, senza contare che, al di là delle parole di molti esperti di diritto e politica comunitari, il fallimento di giungere all'estensione di una vera costituzione europea è segnale piuttosto negativo rispetto ad un vincolo che voglia essere, prima di tutto, di ordine politico. La UE sembra vittima di un duplice solipsismo: quello degli Stati membri e quello delle sue (dis)unite istituzioni: se le crisi portano a curare i propri interessi interni, in questo caso c’è il rischio che i singoli membri percepiscano il loro interesse come preminente e che gli organi dell’Unione si interroghino invece su quale debba essere l’interesse europeo, che potrebbe peraltro confliggere con le politiche dei vari appartenenti.

Gli Stati Uniti vedono invece il presidente Obama, entrato nel nuovo mandato, rinnovare i vertici della politica estera, della difesa e dell’intelligence. Il nuovo Segretario di Stato John Kerry ha recentemente viaggiato in Europa affrontando diversi temi, che spaziano dal contegno da tenersi rispetto alla situazione siriana, fino al vecchio progetto, più volte accarezzato, ma mai attuato, del TAFTA, ossia la vagheggiata area di libero scambio tra Stati Uniti ed Unione Europea, comprensivi delle aree NAFTA ed EFTA. Il progetto fu affrontato nel 1997, durante gli anni dell’entusiasmo internazionalistico della presidenza Clinton e di nuovo nel 2007, dopo che la rinnovata strategia per la sicurezza nazionale di Bush junior (2006) si era ammorbidita e il sentimento prevalente era quello di una ripresa di rapporti più distesi anche con i partner europei. Naufragato entrambe le volte, è stato ripreso dal presidente Obama nel discorso sullo Stato dell’Unione del 2013 e sovente riecheggiato da Kerry nel suo tour diplomatico. Oggi, tale disegno assumerebbe una importanza ed una finalità differente rispetto al passato, in quanto concepito per funzionare su un doppio binario: come opportunità che formi un tentativo di rilancio dalla crisi economica (e dalle “crisi satellite”) e come una reazione dei mercati occidentali all’espansione della economia cinese nello spazio globale.

Il rischio è quello di un’America desiderosa di recuperare completamente il suo ruolo internazionale e restaurare lo status di paese guida dellOccidente – riprendendo la solenne terminologia di Samuel Huntington, che si scontri, però, con una Unione Europea indecisa, non solo sulla sua funzione a livello globale, ma perfino sulla propria identità, politica e istituzionale. L’impegno internazionale statunitense si espone dunque al pericolo di una Europa con obbiettivi di politica estera (ma anche interna) che risultino troppo fumosi. Inutile poi sottolineare come i vari stati membri agiscano spesso sulla base del proprio interesse nazionale, al di fuori di ogni ruolo, anche solo consultivo, dell’Unione: si pensi, per fare due soli esempi, all’intervento francese in Mali, o, in tutt’altra materia, alle critiche mosse dagli organi dell’Unione alle tipologie di tassazione introdotte in Francia e in Italia.

Nuove persone vi sono anche ai vertici della difesa e della CIA. Il nuovo Segretario, in carica dal 27 di febbraio, è il senatore repubblicano del Nebraska Chuck Hagel, ex militare ed ex uomo d’affari, fondatore della compagnia di telefonia cellulare Vanguard. Hagel si è, in passato, mostrato critico verso alcune scelte effettuate dai suoi stessi compagni di partito durante gli anni di Bush e, all’epoca dell’amministrazione Clinton, si manifestò però favorevole all’intervento per il Kosovo. La scelta di Obama sembra dunque orientata ad un internazionalismo simile a quello che caratterizzò l’America degli anni Novanta, che sia dunque selettivo, come si prescriveva ai tempi di Madeleine Albright, ma anche temperato da una buona dose di realismo, il quale appare caratterizzare un personaggio come Hagel, lontano sia dall’entusiasmo liberal imperante in quel periodo, sia da uno smisurato interventismo. Il nuovo direttore della Central Intelligence Agency è invece John Brennan, esperto di questioni di spionaggio e raccolta delle informazioni, già direttore del Centro Internazionale per il Controterrorismo e consulente dello stesso Obama per quelle materie. Brennan è un “falco” e si è mostrato piuttosto inflessibile e risoluto nell’affrontare problemi legati al terrorismo: egli seguì anche in prima persona l’operazione che condusse all’individuazione di Bin Laden, fino al raid che portò alla sua uccisione. Altresì Brennan può essere annoverato fra i realisti: vi sono state polemiche da parte di alcune associazioni per i diritti umani (in particolare l’ACLU) proprio per il suo atteggiamento eccessivamente “duro”. Bisogna sottolineare, però, come questa scelta sia in continuità con un percorso sotto l’egida di un impegno selettivo in politica di difesa, che parallelamente non si ritragga, qualora sia necessario, dalla conduzione di cosiddette covert operations, più volte intraprese nei confronti di gruppi terroristici, anche durante il precedente mandato di Obama (si veda anche il problema dei droni).

3. Il ricercatore James Sperling, esperto di collaborazione tra Stati Uniti ed Europa in materia di difesa e politica estera, ha recentemente messo in risalto i problemi che potrebbero emergere dall’incontro del nuovo corso della politica statunitense con una Unione Europea instabile. Sperling si è soffermato, in particolare, sul caso italiano. L’Italia, ha affermato il professore immediatamente prima del risultato elettorale, si trova in bilico, agli occhi degli americani, tra il risultare un alleato affidabile o un attore inaffidabile; inoltre, concludeva che una situazione di ingovernabilità, a seguito del voto, avrebbe fatto propendere per la completa inaffidabilità, seppure, ha assicurato Sperling, immeritata.

Forse lo studioso è stato eccessivamente pessimista e precipitoso, specie attestando che gli Stati Uniti hanno temuto in modo particolare, un abbraccio da parte dell’elettorato italiano di un movimento comedian-led come il Cinque Stelle, o il riemergere di Silvio Berlusconi nelle vesti di figura politica ancora credibile per gli italiani. Resta il fatto che si è ceduto il fianco al populismo, a parlamentari guidati da figuri che sbraitano stando fuori delle aule e che si autolegittimano, grazie a quei mezzi che l’America cestinò, fin dai tempi di multimiliardari che volevano parlare alla gente, liberarsi delle lobby e occupare la Casa Bianca.

Immagine: "Mappamondo" di Michelangelo Pistoletto