Barack Obama potrebbe essere il prossimo presidente degli Stati Uniti, ma non si è capito bene che tipo di presidente intenda essere. Probabilmente non lo sa nemmeno lui. Gli stessi media che gli hanno dato l'endorsement in questi giorni (e cioè la grande maggioranza, a parte qualche sparuto cenacolo neoconservatore, il prudente Wall Street Journal e il piccolo ma fremente universo di emittenti radiofoniche filorepubblicane sparse sul territorio) hanno generalmente ammesso che il suo programma è un mix di cose buonissime, di cose mediocri e di cose pessime.
 

Al di là della "Obamania" - buffo gioco di parole che ricorda le "Reaganomics" di inizio anni Ottanta - il voto americano non è mai stato così isterico e angosciato. "Fine della Nixon Nation", "reaganismo alle battute finali", titolano giornali della sinistra; "arriva l'europeizzazione dell'America", constata pragmaticamente il Wall Street Journal, guardando ai piani democratici di redistribuzione della ricchezza e di edificazione del welfare state. Tralasciando l'immenso capitolo della politica estera, vera incognita per la prossima presidenza, ci sono tre aspetti che a mio giudizio meritano uno sguardo prima del rush finale. Innanzitutto i contenuti: non si era visto programma più di sinistra, negli ultimi anni, di quello di Barack Obama. Una specie di piano neo-rooseveltiano per tempi di carestia, con abbondanti interventi statali sia sul fronte della crisi creditizia che su quello dell'assistenza sociale, in primis la sanità (la "great society" di Johnson torna a far guadagnare consensi!). Sul piano etico, una disinvolta politica liberale in fatto di aborto e la promessa di mettere mano in senso progressista agli equilibri in seno alla corte suprema - quella che dirime le principali controversie in materia - completano il quadro. La questione è: quanto di tutto questo bagaglio politico Mr. Obama intende portarsi alla Casa Bianca in caso di elezione? (E quanto lascerà, con pragmatismo, fuori dalla porta?). 

Secondo aspetto: l'immagine. La macchina elettorale di Obama - oliata, furba, efficiente, quasi diabolica nel confezionare un abito di innocenza al candidato democratico mentre demonizzava il suo rivale e soprattutto la inesperta candidata alla vicepresidenza Sarah Palin - ha funzionato molto bene. Più sul piano della "quantità" che su quello della "qualità", però: un impressionante sforzo mediatico, un diluvio di finanziamenti, un'invasione di spot televisivi, una tempistica perfetta nel rispondere agli attacchi dell'avversario. Quando McCain ha fatto scalpore con la battuta "Mr Obama, non sono George W. Bush, lei avrebbe dovuto candidarsi contro di lui quattro anni fa", lo staff di Obama gli ha risposto nel giro di poche ore con uno spot che diceva: "sì, però hai votato come lui il 90% delle volte". Quanto si è sempre imputato a Bush e alle sue campagne studiate da Karl Rove - lo stile aggressivo e spregiudicato, le politiche dello "smear and fear", calunniare e impaurire - potrebbe essere tranquillamente rivoltato contro la macchina elettorale di Obama, e i media ad essa alleati. In un'intervista a Sarah Palin andata in onda sull'emittente molto liberal Cnn, l'intervistatore si rivolge alla governatrice dell'Alaska chiedendole cosa ne pensi del fatto che gli stessi quotidiani conservatori la dipingono come "incompetente, stupida, incapace, corrotta, ritardata". La Palin è rimasta smarrita e contrariata. Peccato però che l'articolo cui si riferiva il giornalista della Cnn dicesse esattamente l'opposto: rimproverava i mezzi di informazione pro-Obama per la loro tendenza a denigrare e calunniare. Inutile aggiungere che la Cnn ha semplicemente fatto finta di niente. 

Terzo aspetto: la mappa politica. Prendete la Route 101, che collega il sud della California con l'Oregon e lo stato di Washington, lungo tutta la costa pacifica. Immaginate che stiate correndo su un invisibile confine: a sinistra, premute contro l'oceano, ci sono le piccole e densamente popolate contee che nel 2004 hanno votato democratico; a destra, per centinaia di miglia, l'immensa e spopolata Right Nation, che corre fino quasi alla vallata del Mississippi. Oppure fatevi un giro da Chicago ai suoi sobborghi, e alle contee rurali dell'Illinois, per vedere come il voto democratico, concentrato in alti picchi nello stretto perimetro metropolitano, evapori letteralmente appena ci si allontana dalla città. La stessa cosa in Pennsylvania, grande rettangolo che si allunga da Philadelphia, sull'Atlantico, agli Appalachi e alle pianure interne del Midwest: un altro Giano bifronte, blu democratico a est, in una minuscola porzione a ridosso della costa, e rosso repubblicano in tutto il resto dello stato. Questa è la mappa politica delle scorse elezioni presidenziali americane, che hanno regalato a George W. Bush una solida vittoria, ma è in generale la distribuzione dei rapporti di forza tra i due schieramenti almeno dal 1980 a questa parte. Un Paese dove incredibilmente la "campagna" e la "città" come realtà sociopolitiche esistono ancora, più forti che mai, e si nutrono di speculari pregiudizi l'una riguardo all'altra, in una mentalità da assedio. E qui si torna al punto iniziale. La sfida di Barack Obama, se vincerà (e non è ancora sicuro), è trasformare il voto democratico da un arcipelago di cittadelle assediate in una mappa più o meno uniforme, riuscire a raccogliere un consenso giovane ma non qualunquista, deciso ma non ideologico, arrabbiato ma non nichilista, colto ma non elitario. Come possa farlo da posizioni insieme così radicali e così ambigue è ancora un mistero.