La svolta politica in Turchia ha suscitato una certa perplessità nell'opinione pubblica occidentale, che fatica ad inquadrare ideologicamente il nuovo presidente, Abdullah Gül, e il suo partito, l'Akp. Ciò che si teme è un'ondata confessionale che cancelli le tracce del kemalismo laico e nazionalista. Ma anche il kemalismo aveva imposto una negazione brutale della identità precedente, e prima o poi la Turchia doveva venire a patti con il proprio ingombrante passato. Riconoscerlo per non vergognarsene. La speranza è che il "ritorno del rimosso" avvenga in modo tale da evitare pericolose fughe nell'integralismo religioso.
In questi ultimi anni qualcosa è cambiato in Turchia, e il nuovo presidente Abdullah Gül, in fondo solo l'ultimo arrivato, è a suo modo il simbolo della mutazione. Colpisce in lui il dato fisiognomico, i folti baffoni: si ha l'impressione che il nuovo volto della Turchia abbia qualcosa di più ruvido, più tradizionale, di quello del predecessore Sezer  e, se vogliamo, il parallelo immediato è quello del passaggio da Gorbaciov a Eltsin, e ancor di più delle rispettive mogli. Come in Russia a cavallo del 1990, la Turchia saluta l'epoca degli affabili occidentalizzanti e accoglie due signori austeri e veraci (sorvolando sul capo coperto della nuova first-lady, vero protagonista mediatico della nuova elezione). Poi, c'è la cifra politica, quella solida muraglia del 46,4% che si erge a sostegno dell'Akp, il nuovo partito che con una etichetta un po' vaga i nostri media ci hanno presentato come il partito "islamico moderato".
In effetti la Turchia ci aveva abituati a qualcos'altro, a qualcosa di unico e singolare come unica è la sua vicenda storica. Quello turco è uno Stato cresciuto e prosperato nella drammatica commistione di efficienza e brutalità: nel 1922 rinasce dalle spoglie dell'Impero Ottomano con la veste laica conferitale da Atatürk, che dà inizio a una serie di riforme sconvolgenti; nel 1923 si evita un destino di estenuanti conflitti etnici (quello che capiterà invece alle nazioni balcaniche) attraverso un gigantesco scambio di popolazione con la Grecia, con milioni di profughi coinvolti; nel frattempo, aveva tentato di risolvere il "problema" della vasta minoranza armena nei suoi remoti lembi orientali con un orrendo genocidio tuttora ostinatamente rimosso. Eppure la Turchia, con questo impressionante "richiamo all'ordine" questo auto-disciplinamento collettivo nei ranghi della modernità, ha assunto le sembianze uniche di uno stato insieme islamico e laico.
A che prezzo però? A quello di un grave azzeramento della propria storia precedente al Novecento. Come ha sottolineato lo scrittore Oran Pamuk, il kemalismo contiene in sé i germi pericolosi della vergogna, di un odio addirittura, verso la propria civiltà passata, cui fa seguito l'accettazione disinvolta della repressione, anche militare, del dissenso, pur di evitare il ritorno del passato. Quanto può durare? Se è lecito tracciare un parallelo tra la psicologia degli individui e quella delle masse, ciò che è rimosso, prima o poi, fa capolino di nuovo, sotto altri aspetti. Magari in modo perverso e con maggiore intensità. Magari dietro le insegne dell'ideologia fondamentalista (Iran 1979 docet), che in Turchia sarebbe prodotto di importazione. Ed è ciò che tutti coloro che hanno a cuore lo stato laico, in Turchia e altrove, proprio non vogliono.
Di fronte a questa prospettiva rischiosa, per ora certo lontanissima (ma le cose potrebbero cambiare in fretta, chi si aspettava solo trent'anni fa l'esplosione del jihadismo?), e sempre tenendo ferma la richiesta pressante del rispetto delle libertà civili, dei diritti umani, della laicità dello Stato, è forse pensabile accordare una circospetta fiducia all'inedito risultato elettorale turco. Un risultato che premia una forza certo piena di contrasti e anche di certe frange aggressive, ma che dell'ideologia islamista radicale/fondamentalista sembra avere poco, che nella sua inconsueta formula di compromesso e nell'assenza di dogmatismo, ma con una "linea morbida" verso la tradizione religiosa, potrebbe, se non offrire un modello nuovo, evitare l'ennesimo scontro tra laicità radicale ed estremismo islamista. Forse anche una sorta di "terza via" più avvicinabile dalle società islamiche circostanti – data anche la totale perdita di attrattiva che hanno subìto concetti quali "modernità" e "Occidente" in questi decenni. "Non sparate sulla Cina", avverte Enzo Bettiza dalla Stampa, invitando a moderare le critiche mosse oggi alla potenza asiatica in nome dei passi compiuti in questi ultimi anni (pur senza rinunciare a pesanti violazioni dei diritti umani). Forse l'avvertimento è valido anche per la Turchia.