Che le cose non avrebbero girato come si deve il Centro Einaudi lo scriveva alla fine degli anni ottanta. Adesso non c'è quasi più gusto. Libri che parlano di declino più o meno inevitabile o al quale rassegnarsi si trovano negli scaffali per non specialisti delle librerie di medio assortimento.
C'è un seguito. Perché andiamo male? E, soprattutto, che cosa potremmo fare? Incuriosito dalle proposte elettorali mi sono sintonizzato su un dibattito politico e ho sentito un preclaro esponente di uno schieramento affermare che alle radici del declino vi sarebbe il fatto che anno dopo anno la crescita (del Pil) sarebbe inferiore a quella degli altri paesi europei, tant'è che si forma il divario. Ora, possibile che anni di esperienza in Parlamento non abbiano ancora insegnato a distinguere gli effetti dalle cause? Evidentemente è così, perché in campo fisico l'affermazione del "preminente" equivarrebbe a dire che la causa delle alluvioni è l'abbondanza di acqua che sventuratamente esce dagli alvei. Anche senza essere un geologo, mi pare di non poter essere d'accordo. E le cause della bassa crescita italiana? Visto che i numeri e i concetti ci sono, tanto vale usarli.
A voler molto semplificare i fatti, la crescita economica è il frutto della combinazione di processi di accumulazione di risorse con la produttività del loro impiego. Vi faccio una proposta: sul versante delle risorse vorrei tornare un'altra volta. Basti dire, per il momento, che l'impulso demografico alla crescita si è smorzato quando l'ultima generazione del baby boom ha fatto il suo ingresso nel mercato del lavoro: intorno al 1990. Quanto all'accumulazione di capitale, il fatto che la pubblica amministrazione abbia distrutto risparmio con i suoi disavanzi ha un bel po' di responsabilità.
Verrei invece all'altro punto, ossia al fatto che le risorse giocano nell'economia con le "regole di ingaggio" definite dalla loro produttività. La TPF, appunto la produttività totale dei fattori, ha seguìto in Europa, e in Italia, un andamento declinante (in termini di tasso di crescita). Il fatto non è di poco conto, sia perché invece la TPF è costantemente cresciuta in Nord America, sia perché all'interno della stessa Europa una recente ricerca ha dimostrato che il fenomeno non è affatto omogeneo, cioè a dire i divari si formano perché la TFP cresce in numerosi paesi e, segnatamente, nei paesi ex socialisti (www.euklems.net).
Oltre a non essere immutabile, la produttività non è una sola. Ce ne sono almeno due, ossia la produttività del lavoro, quella più famosa, e la produttività del capitale (pressoché trascurata nei dibattiti, così come la produttività delle materie prime e delle risorse ambientali, sulla quale probabilmente è opportuno che si facciano pochi calcoli).
Vista la notevole quantità di dati utili per stimare le produttività appena pubblicati sul sito europeo dagli istituti europei, ci siamo esercitati nel calcolo della dinamica della produttività marginale del capitale e del lavoro, facendone una stima basata su una funzione di produzione. Ciò che abbiamo trovato è esposto nella figura.
media pagina
media pagina

Dal 1980 in poi mentre la produttività marginale del lavoro più o meno raddoppiava, quella del capitale si è ridotta di un terzo. In queste condizioni il mistero della "crescita zero" incomincia a dipanarsi, anche perché nello stesso periodo di tempo il rapporto tra input di capitale e input di lavoro è andato costantemente a crescere, per effetto dei prezzi relativi dei due fattori.
Apparirebbe anche una strada per intervenire. Già, perché se quando sembrava che la produttività dell'utilizzo del lavoro era scarsa abbiamo messo mano alle regole del relativo mercato (salvo poi fare frettolosamente marcia indietro su qualche pezzo della Legge Biagi), perché non pensare adesso all'altro grande mercato dei fattori, ossia al mercato del capitale?
Il capitale per gli economisti non è il denaro. Il mercato del capitale è quello delle decisioni di investimento reali, dunque il punto è che il modo con cui si prendono le decisioni di allocazione del capitale all'origine (ossia quando le imprese nascono o si accrescono) e quando, una volta nate, esse vivono e fanno gli ammortamenti degli investimenti passati (rinnovando per appunto lo stock di capitale del sistema). Se queste decisioni avvengono con efficienza progressivamente minore forse bisognerebbe chiedersi se i meccanismi di allocazione sono efficienti.
Ci piacerebbe allora che, invece di aspettare che "finisca l'alluvione" i candidati parlassero di come intendono migliorare il mercato del capitale.
Per esempio, visto i dubbi che più di una volta ha espresso lo stesso presidente uscente della Confindustria sull'efficacia dei cosiddetti "incentivi" alle imprese, perché non cambiarli in una decisa politica di efficienza del mercato del capitale reale.
Qualche esempio? Per migliorare l'allocazione del capitale all'origine si potrebbero azzerare i costi di costituzione delle imprese. Si dovrebbe poter costituire una Srl con uno statuto standard in pochi giorni presso una qualsiasi Camera di Commercio. Si potrebbe costituire un fondo di garanzia destinato a garantire 3 euro di finanziamenti bancari per ogni euro di capitale proprio destinato a una start-up, almeno uno dei quali anticipando i futuri aumenti di capitale dei soci (prestiti partecipativi). Si potrebbero defiscalizzare i risultati degli investimenti nelle società con meno di 5 anni di vita.
Passiamo al mercato dell'allocazione del capitale nelle imprese che esistono e devono crescere (e non lo fanno o lo fanno troppo poco). Qui la legislazione italiana, da quella del lavoro a quella fiscale è un inno alla piccola dimensione. Crescere non conviene, bisognerebbe ribaltare la prospettiva. Come?
Per esempio, si potrebbe rendere più facile la crescita riducendo di un terzo o della metà le imposte delle società che crescono a un tasso superiore alla deviazione standard del proprio settore, a condizione che gli utili siano reinvestiti, anche nell'acquisto di aziende. Si potrebbero esonerare dalle imposte le plusvalenze emergenti dalle operazioni di fusione (per società piccole e medie). Inoltre il capitale è poco flessibile sotto il profilo allocativo (ma perché mai il lavoro deve esserlo, e il capitale no?). Per adottare misure liberali, niente norme positive, ma incentivi. Si potrebbe dimezzare l'imposta sulle plusvalenze dalla cessione di quote di aziende, almeno fino a 2 milioni di plusvalenza per singolo azionista. Per rendere più contendibile il mercato delle quote societarie e favorire la formazione di complessi funzionanti più robusti si potrebbe introdurre il mercato dei pink sheet in Italia, ossia delle azioni delle società che non hanno fatto un'IPO formale e quindi non ne hanno sopportato i costi proibitivi (l'importante è che il risparmiatore sappia che cosa sta comprando, perché i crack recenti dimostrano che non ci sono regole a priori che possano "garantire" la qualità degli investimenti), terminando anche l'esperienza del MAC, così rigido e così riservato che a questo tasso di crescita raggiungerà la dimensione di un quinto del Nasdaq dopo l'anno 2100. Invece, tutte le società partecipanti a un mercato e con un flottante di almeno il 51 per cento (e, per ciò, scalabili, ossia contendibili) dovrebbero pagare meno imposte sui redditi sempre e non più della metà della norma nei primi cinque anni dopo l'emissione, a condizione di reinvestirli.
Il modello di capitalismo italiano è da tempo discusso, ma non si è fatto mai nulla per cambiare le regole istituzionali che lo ingabbiano. Romperle non è difficile, né impossibile. Probabilmente neppure costoso, attingendo alle risorse dei più discutibili incentivi (con forti benefici per la semplificazione del sistema, peraltro), ma destra o sinistra hanno questo coraggio o vogliono conservare il capitalismo congelato e la bassa crescita che vi consegue?