Il Kashmir è come se fosse una grande ferita aperta tra India e Pakistan. Si tratta del conflitto insoluto più vecchio che la storia contemporanea registri. L’inizio della disputa kashmira risale addirittura al 1947, anno di indipendenza di India e Pakistan dall’Impero britannico. Quindi si tratta di un conflitto più vecchio dello scontro arabo-israeliano, anche se di pochi mesi. Più vecchio, ma certo molto meno conosciuto. In quanto segue cercheremo di mettere a fuoco i termini della vicenda e i suoi possibili sviluppi.

1. Da gennaio a oggi, il Kashmir è stato interessato da una continua serie di scontri a fuoco, scioperi e manifestazioni violente. Due settimane fa, un commando di mujaheddin indipendentisti ha teso un agguato a un convoglio dell’esercito indiano, uccidendo due soldati. Sette giorni dopo, altri due agenti di polizia sono rimasti uccisi a Srinagar, capitale del Jammu-Kashmir, l’area sotto giurisdizione di Delhi. Entrambi gli attacchi sono una reazione violenta al nuovo coprifuoco dichiarato dalle autorità indiane in concomitanza con le visite nel Jammu-Kashmir del premier Singh e della leader del Partito del congresso Sonia Gandhi.

Da sempre il Kashmir rappresenta il ring di un conflitto di bassa, ma costante intensità. Per gli indiani stiamo parlando del Jammu-Kashmir, Stato federale che fa capo a New Delhi. Il controllo pakistano si rivolge invece alle province dell’Azad Kashmir e del Gilgit-Baltistan. La Cina dal canto suo mantiene il controllo sui distretti di Aksai Chin e Shaksgam, ma non è più stata coinvolta nelle rivalità della zona dai tempi della guerra con l’India nel 1962.

In sintesi quindi le posizioni sono: per l’India la sua parte kashmira è integrata a tutti gli effetti nella Federazione, mentre il Pakistan dice che vorrebbe offrire maggiori poteri al governo delle sue due province. Infine la Cina ha incluso l’Aksai Chin e lo Shaksgam nel Tibet.

È quindi è tra Delhi e Islamabad che, da oltre 60 anni, si consuma la tensione. Una tensione che geograficamente si scarica lungo la Line of Control (LOC), ovvero il confine provvisorio che separa le due nazioni. La frontiera venne stabilita al momento della divisione tra India e Pakistan, a indipendenza acquisita. Tuttavia, i due governi non sono mai arrivati alla stipula di un trattato di pace che chiarisca definitivamente i confini.

È proprio il mancato accordo sulla LOC a costituire uno dei contenziosi più vecchi della storia contemporanea. Sono note a tutti le immagini dei militari indiani e pakistani che, ogni giorno, si impegnano in una sorta di danza di guerra lungo la frontiera. Restando nel proprio territorio e indossando le uniformi da parata. I soldati di sentinella si ingegnano in pittoreschi equilibrismi e passi dell’oca, per mostrare al nemico la propria forza. Gesti ancestrali, questi, legati alle tradizioni tribali dei due Paesi. Dal 1947, gli eserciti delle due nazioni si sono fronteggiati in tre guerre: nel 1948, nel 1965 e nel 1971. Nessuno di questi conflitti è però risultato conclusivo delle frizioni.

Il Kashmir è quindi la ribalta del contenzioso indo-pakistano. Primo perché la LOC divide questo territorio in due macro-aree che restano entrambe monche della parte perduta. Secondo, perché è il contenitore delle più svariate tensioni del subcontinente indiano. Le ambizioni geopolitiche si intrecciano agli interessi economici. Fa da sovrastruttura il persistente rischio di attacchi terroristi, di matrice religiosa e indipendentista assieme.

 

 

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La regione infatti è interessata dalla presenza di unità paramilitari che combattono per l’autonomia del Kashmir. Alcuni gruppi, ispirati da un Islam deviato e fanatico, sono appoggiati dal Pakistan. Altri, di ceppo induista, sono sostenuti dall’India. Un terzo nucleo infine rivendica la totale indipendenza da entrambi i governi. Quest’ultimo rappresenta l’attuale bersaglio che le truppe di Delhi stanno cercando di colpire.

Fra tutti questi soggetti il nome che riscuote maggiore attenzione è quello di Lashkar-e-Toiba, il gruppo jihadista legato ad al-Qaeda e responsabile degli attentati di Mumbai nel novembre 2008. L’attacco, che provocò 175 morti e 308 feriti, fece da casus belli per una nuova rottura dei rapporti India-Pakistan. La prima accusò Islamabad di essere in qualche modo coinvolta nelle attività del gruppo terroristico. Il Pakistan smentì seccamente. Anzi, replicò sostenendo che le forze talebane afghane erano a loro volta supportate dall’India. Lo scambio di denunce tra i due governi resta ancora una pagina aperta.

2. Negli ultimi vent’anni, il Jammu-Kashmir ha fatto da teatro per una serie di attentati contro le forze armate indiane, di cui si calcola un bollettino complessivo di circa 100 mila morti.

Ne è emersa la decisione del ministero della difesa a Delhi di imporre frequentemente la legge marziale. Com’è avvenuto in queste ultime settimane. La scelta, cautelativa, ha incrementato però le proteste in seno alla maggioranza musulmana della popolazione locale (66% rispetto ai 12 milioni di abitanti in tutto il Jammu-Kashmir). Contestuali sono apparse le reazioni di protesta del Pakistan, il quale si è sentito offeso “di sponda” dalle misure censorie indiane.

Effettivamente in quelle terre lontane, la più grande democrazia del mondo ha assunto una linea repressiva particolarmente rigida. Il conflitto kashmiro, oltre a godere del record di durata nella storia, è anche quello che presenta il maggior numero di forze militari dispiegate sul campo di battaglia. Le Forze di sicurezza indiane tengono impegnati in Kashmir circa 600mila uomini. Il rapporto è 1 a 20: ogni soldato indiano è incaricato di controllare 20 cittadini kashmiri.

Delhi sostiene che il Jammu-Kashmir sia l’epicentro delle attività terroristiche del fondamentalismo islamico, legato a elementi deviati dei servizi di intelligence di Islamabad, l’Isi. Le autorità pakistane a loro volta sono convinte che l’India fornisca di armi i guerriglieri della minoranza indù, anch’essi particolarmente agguerriti.

Non bisogna dimenticare inoltre che proprio quelle valli hanno fatto da culla all’induismo e al buddhismo, in una sorprendente coabitazione confessionale con la corrente mistica dell’Islam, il sufismo. L’area è quindi un crocevia di culture, civiltà e religioni. Nel corso dei secoli i popoli locali hanno saputo convivere in pace, così come sono stati capaci di scontrarsi ferocemente. Nella discontinuità ciclica della storia, la congiuntura odierna si presenta palesemente negativa.

Oggi infatti, per come è posizionato, il Kashmir appare strategico nel traffico di armi e di droga da e verso il teatro di guerra afghano. Le comunità musulmane mantengono i contatti con i fratelli nell’Islam d’oltre frontiera. Gli strali bellicistici del fanatismo religioso vengono sintetizzati in quel laboratorio ideologico che è l’università islamica di Deoband, ateneo religioso dell’Uttar Pradesh (India), assai noto alle agenzie di intelligence qui in occidente.

C’è tuttavia un motivo che va oltre qualsiasi simbologia e che spiega l’attaccamento, da parte sia di Islamabad sia di New Delhi, alla regione. Il Kashmir rappresenta il bacino idrografico principale dell’Indo. Il fiume più lungo dell’India con i suoi 3 mila chilometri, nasce in Cina, attraversa il Jammu-Kashmir e infine si sviluppa nella sua massima capacità in Pakistan. Il suo bacino interessa 1,16 milioni di chilometri quadrati circa. Logico che i Paesi che sono bagnati da queste acque cerchino di accaparrarsi il massimo delle risorse a discapito dei vicini.

Nel 1960 Islamabad e Delhi firmarono un trattato che avrebbe permesso l’equo sfruttamento delle risorse d’acqua kashmire. Con l’obiettivo di creare una rete di dighe e centrali idroelettriche di utilizzo comune, venne fondata la Pemanent Indus Commission. Furono quindi realizzate la diga di Mangla, quella di Jehlum e l’ultima a Tarbela. Tutte e tre in Pakistan, ma solo la prima nel Kashmir. Dopo questa fase iniziale di apparente partnership e in seguito allo scoppio del secondo conflitto indo-pakistano (1965), la commissione si trasformò in un contenitore vuoto, utile solo per fare da cassa di risonanza alle frizioni tra i due colossi asiatici. Da allora ciascun Paese ha deciso di portare avanti unilateralmente le proprie politiche di sfruttamento delle risorse naturali.

Nel biennio 2009-2010, i ripetuti summit fra India e Pakistan hanno fatto parlare di una distensione prossima ventura. Nulla potrebbe apparire più vantaggioso, per l’occidente e soprattutto per gli Usa, se non la normalizzazione dei rapporti tra queste due potenze nucleari. Washington è alleata di entrambe. La ripresa del dialogo porterebbe facilitare la risoluzione di molte criticità che si addensano in Asia centro-meridionale. L’“Af-Pak war” prima di tutto, che si teme possa peggiorare dopo il ritiro della Nato nel 2014. A detta degli esperti, Afghanistan e Kashmir formano un tutt'uno. L’aumento di tensioni in un quadrante è potenziale causa di radicalizzazione delle violenze nell’altro.

3. Nella generalità del problema quello che emerge è che l’indipendenza del Kashmir non converrebbe a nessuno. La Cina è sempre in prima linea a contrastare qualsiasi espressione di autodeterminazione di minoranze etniche e religiose. Tibet docet. La posizione del Pakistan invece è ibrida quanto perniciosa. Al momento sta sfruttando le istanze autonomiste, con la chiara intenzione di creare ostacoli al governo di Delhi. L’omogeneità etnica delle sue due province con il Jammu-Kashmir facilita questa linea. Lo stesso si può dire per la diffusione dell’Islam. Tuttavia, se un giorno il Kashmir riuscisse davvero a diventare indipendente, il Pakistan sarebbe il primo a perdere il controllo di importanti risorse idriche, nonché di porzione strategica del suo territorio.

L’India, infine, è il soggetto bollato come “il cattivo di turno”, in seguito alla sua scelta di contenere allo stesso tempo le istanze autonomiste della regione e le derive jihadiste che si annidano nella stessa. L'obiettivo perseguito da Delhi è di sintetizzare due criticità in un solo problema. D’altra parte, il fatto di dichiararsi come l’unica democrazia della regione, con una proiezione sull’Oceano indiano, impone al governo Singh un atteggiamento di alta responsabilità etica. Nell’affaire Kashmir l’India è il soggetto forte. Ed è quindi chiamata a compiere un passo che le permetta di gestire in maniera risolutiva il problema e, al tempo stesso, confermarsi come nazione egemone in Asia centro-meridionale.