Il prossimo novembre saranno passati vent’anni da quella conferenza stampa a Casalecchio di Reno nella quale Silvio Berlusconi, alla domanda “se lei fosse a Roma, al secondo turno delle comunali chi sceglierebbe tra Rutelli e Fini?”, rispose: “certamente Gianfranco Fini. Non avrei un secondo di esitazione”. Quell’affermazione così schietta e apparentemente generosa nei confronti di un esponente della destra post o neofascista che era stata fino allora confinata nell’area della impresentabilità è passata alla storia con il nome molto poco elegante di “sdoganamento”. Ma comunque lo si voglia chiamare, se c’è un battesimo del berlusconismo come sistema politico, una genesi di quella alleanza tra pezzi diversi di un universo di elettorato che l’arco costituzionale antifascista aveva posto di fuori e al di sotto della politica praticabile, è allora che va cercato.

1. La vittoria del candidato del Front National Laurent Lopez alle cantonali francesi nel piccolo centro di Brignoles sono salutate dagli osservatori come la rottura del front republicain, di quella conventio ad excludendum tra destra e sinistra scaturite dalla lotta di liberazione dal nazifascismo (gollismo, socialismo, comunismo, repubblicanesimo, radicalismo) in virtù della quale i voti delle varie formazioni, che si disputano la competizione in senso antagonistico, sono pronti a riversarsi sull’uno o sull’altro candidato nel turno di ballottaggio qualora vi fosse il rischio di vittoria di esponenti della destra estrema. Un patto che trova la sua manifestazione più nota nelle presidenziali del 2002, quando i voti della gauche vennero indirizzati al secondo turno su Jacques Chirac, onde allontanare lo spettro di una presidenza Le Pen. Mentre ora, di fronte a un appello di simile sorta, gli elettori non hanno “ubbidito” ai partiti, e hanno votato il sindaco che più piaceva loro.

Fatte salve le dovute differenze, anche in Italia il berlusconismo nasce con la rivalutazione delle scelte di un elettorato “sommerso”, con la scoperta di un “sottobosco” politico e antropologico che cinquant’anni di storia repubblicana avevano in varie misure dimenticato, rimosso, o anche solo interpretato in modo che a quel popolo non andava più.

2. La sorte personale di Berlusconi è una cosa, quella del sistema ideologico da lui generato è un’altra. E’ su questa fondamentale distinzione che si basa il saggio di Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia (Marsilio, 238 pp.). E Berlusconi, spiega lo storico, è destinato a sopravvivere al berlusconismo, che probabilmente è già morto da tempo. Orsina analizza la promessa palingenetica del primo berlusconismo, se è vero che il 1993/94 che ricordavamo prima ne rappresenta contemporaneamente il debutto e già lo zenith, il culmine. In quell’inizio c’è tutta l’energia fiduciosa e ottimistica di una maturità e di un autonomia del “Paese reale” rispetto al “Paese legale”, dello spontaneismo della società e dell’economia rispetto al ruolo di guida delle istituzioni preesistenti. Un berlusconismo animato dall’intenzione di fare “tabula rasa” di quanto c’era prima, partiti, sindacati, corpi dello Stato.

Un’illusione destinata presto a scontrarsi con la realtà, ovvero con tutta quella parte di Paese che il crollo del Muro e Tangentopoli non avevano trascinato con sé. Nella scoperta della necessaria mediazione con quest’anima profonda dell’Italia è da rintracciarsi la prima crisi, il primo brusco risveglio di Berlusconi.

Viceversa, il declino del berlusconismo secondo Orsina si compie ben prima delle recenti vicende del voto di fiducia al governo Letta e, prima, della caduta del governo del 2011: il sistema di consenso berlusconiano aveva esaurito la sua spinta positiva già nel 2005/2006. Da allora il voto che il Cavaliere continua a riscuotere pure in numeri imponenti è un voto che vira sempre più verso la rassegnazione, o la disperazione, un voto che richiama il “turarsi il naso” degli anni Settanta per la DC. Se è vero, infatti, che “le disavventure giudiziarie del Cavaliere non hanno rappresentato un problema per chi lo votava e (...) nel confermare il suo status di ‘vittima’ dell’apparato ortopedico e pedagogico dello Stato, esse abbiano rafforzato la sua pretesa di rappresentare le ragioni del popolo/società civile nelle istituzioni”, allora uno dei punti di precipizio dell’avventura berlusconiana va ricercato nel momento in cui quell’elettorato riconosce come le promesse del Cavaliere abbiano prodotto un risultato così misero e deludente rispetto alle aspettative.

Aggiungiamo: è da allora che anche nel suo popolo si fa strada con sempre maggior forza la consapevolezza che la posizione del leader sia diventata decisamente preponderante rispetto alle urgenze pur reali del sistema-giustizia, e di come i suoi problemi personali vadano sopra a ogni considerazione astratta e legittima fondata nel garantismo liberale, per ricercare la sola difesa dei propri interessi.

Tuttavia è forse nella riflessione sulle origini del berlusconismo che si può trovare la parte più interessante del saggio di Orsina. Il berlusconismo come reazione alla “tradizione ortopedica e pedagogica” prevalente nella storia italiana, che si tratti di quella liberale risorgimentale, di quella fascista o di quella repubblicana. Scrive Orsina: “i vari progetti di rieducazione e raddrizzamento dell’Italia per via politica (...) prevedevano in astratto che un paese legale virtuoso e lungimirante elevasse al proprio livello di civiltà un paese reale particolaristico e arretrato”. Un’ansia di modernizzazione che cozza, nota l’autore, con una delle virtù cardini del liberalismo, la pazienza, e che conduce sottilmente a una gestione del potere spesso autoritaria e sbrigativa.

3. Ma anche il berlusconismo come risultato della tradizione “platonica” e mai compiutamente “popperiana” della politica italiana, ovvero la tendenza di asservire le istituzioni al disegno politico contingente, e mai di costruire istituzioni sufficientemente forti e neutrali da reggersi a prescindere dalle contingenze storiche: “l’Italia ha continuato a porsi insistentemente sempre la medesima domanda, quella che Platone ha messo alla base della filosofia politica occidentale – chi debba governare –, provando e scartando una risposta dopo l’altra. Non è però mai arrivata al passo che secondo Karl Popper segna la modernità liberaldemocratica: cambiare non risposta ma domanda, ossia chiedersi non chi debba governare, ma come sia possibile costruire un meccanismo istituzionale che consenta di sostituire pacificamente i governanti quando li si ritenga inadatti”.

Questo aspetto fondamentale - un “discorso sul metodo”, per citare in causa stavolta la filosofia cartesiana - è mancato storicamente all’Italia e ne segna puntualmente la distanza con altre grandi democrazie. Non è un caso che fenomeni politici pure accostabili al berlusconismo come il reaganismo e il thatcherismo non abbiano mai prodotto un conflitto così aspro e in definitiva malsano con le istituzioni dove tali movimenti trovavano posto. Per quanto rivoluzionarie sul piano delle intenzioni, più o meno riformiste su quello delle scelte di governo, innovative nel contenuto ideologico, tali stagioni sono state “contenute” da un solido quadro istituzionale. Anche quando la loro eredità si spandeva sugli anni successivi, Thatcher e Reagan occupano lo spazio ben circoscritto dei loro mandati elettorali, e la loro “fine” politica è stata molto minimalista e poco epica.

Consentire a un Paese di sopravvivere intatto nelle sue istituzioni alla fine dei vari cicli politici che si sono succeduti è una sfida che l’Italia ha sempre perso. Ne è prova la rotta del liberalismo risorgimentale dopo la Grande guerra, il 25 luglio e la guerra civile per il fascismo, Tangentopoli per la prima Repubblica. Cosa sarà di noi dopo il berlusconismo - quanto doloroso e traumatico sarà il passaggio a una nuova stagione, quanti “fantasmi” e accuse di “tradimento” ci porteremo dietro - rappresenta una partita importante di laicità e, in fondo, di maturità.