La proposta di punire a norma di legge la negazione della Shoah ha riportato in auge per un breve momento il tema della libertà accademica e dei suoi limiti. Può uno studioso sostenere, fonti alla mano, qualcosa che la stragrande maggioranza dei cittadini ritiene falsa oltre che moralmente ripugnante? La domanda non è peregrina, perché investe la natura stessa della ricerca in una società che si vanta di essere libera e democratica.

 

1. Dopo tanto discutere, se verrà contemplato il reato di negazionismo in Italia lo sarà nella forma striminzita della circostanza aggravante. In Europa se ne discute da parecchi anni e, in alcuni stati, fra questi la Germania, esistono sanzioni per condotte di questo genere. In Polonia è reato negare i crimini nazisti e del regime comunista. In Francia, la cosiddetta Legge Gayssot del 1990, all’art. 9, sanziona chi contesta l’esistenza dei reati contro l’umanità, così come definiti dall’art. 6 dello Statuto del Tribunale Internazionale, annesso alla Carta di Londra dell’8 agosto 1945.

Il problema si pone, prima di tutto, in merito al contrasto di tali disposizioni con la libertà di espressione, sancita da tutte le costituzioni democratiche, sia secondo il modello settecentesco delle libertà politiche, sia secondo quello novecentesco dei diritti sociali. Per esempio, nessuno si sognerebbe di introdurre leggi che prevedano simili sanzioni negli Stati Uniti, dove la libertà di parola (free speech) è sancita dal Primo Emendamento. Solo alcune materie, come la pedo-pornografia, sono escluse dalla protezione del free speech.

Anche le critiche mosse da moltissimi storici italiani al progetto di legge parlano di violazione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, che, nella Costituzione, è coperto dall’articolo 21. Tutti i reati cosiddetti di opinione, i quali continuano a sussistere nel nostro Codice Penale sotto le forme del vilipendio (verbale), della istigazione e dell’apologia, contrastano in realtà con tale norma di rango costituzionale e necessitano di un filtro da adoperarsi caso per caso, che consiste con una verifica molto simile a quella del clear and present danger e che si attua mediante il parametro della cosiddetta offensività in concreto della condotta. Sulla violazione della libertà di opinione che una simile legge implicherebbe, si sono soffermati due storici prestati alla politica: Miguel Gotor, del PD, e Andrea Romano, di Scelta Civica. Anche la Sissco, ossia la società italiana per lo studio della storia contemporanea, ha manifestato scetticismo nei confronti del progetto di legge, e per le stesse ragioni.

Il diritto penale ha come fine quello di prevedere sanzioni per condotte concrete che siano offensive di beni giuridici, i quali devono essere assai ben determinati: proprio per questo, non appare un mezzo adeguato a contrastare la manifestazione di opinioni, siano esse abominevoli, come il caso in questione della negazione della Shoah, siano invece semplicemente scomode per qualcuno: si pensi alla possibilità di oscurare siti o blog che manifestino critiche contro chicchessia. I rischi sono due: l’imposizione per legge di una realtà fattuale, oppure, ben più concretamente, la totale inefficacia di una disposizione che riduce il diritto penale a dichiarazione simbolica.

2. Il primo dei due rischi è stato ben riassunto dallo studioso di diritto penale Giorgio Licci, il quale scrive: «la risposta penalistica è pienamente legittima quando dai falsi storici, si passi all’istigazione all’odio o alla violenza; ma allorché la verità storica sia imposta con legge o con sentenza, indipendentemente da un incitamento a delinquere da parte dell’imputato, il legislatore e il giudice tradiscono un’attitudine intimamente totalitaria». E ciò sarebbe il risultato evidente di un «décalage qualitativo del pensiero penalistico occidentale». La tendenza a tale décalage è peraltro confermata da una serie di sentenze rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso di ricorsi intentati da singoli, che lamentavano la violazione dell’art. 10 della convenzione, in merito alla libertà d’espressione, per essere stati sanzionati in forza di leggi anti-negazioniste, in vigore in alcuni dei paesi facenti parte del Consiglio d’Europa. La più celebre è forse quella che riguarda lo scrittore e politico francese Roger Garaudy, prima marxista, poi convertito all’Islam e convinto negazionista. Garaudy fu difeso dal famigerato avvocato libertario (ma di sinistra) Jacques Vergès, il cui libro sugli errori giudiziari vanta, in Italia, una prefazione di Giuliano Ferrara. L’atteggiamento della Corte EDU nei confronti delle leggi in questione è, senza ombra di dubbio, piuttosto antiliberale: secondo i giudici di Strasburgo, è giusto, in determinati casi, punire sedicenti storici per condotte che non necessariamente hanno prodotto pericolo concreto; si trasforma così una realtà storica in una verità giuridica, con un manto di dogma religioso, la cui violazione è immediatamente sanzionata. Pare quasi che la Corte voglia farsi portatrice dell’idea paternalistica di uno «stato etico» che imponga addirittura il pensiero a colpi di sentenze. Sottolinea ancora Licci: «è ben curioso che proprio i paesi che furono la culla dell’Illuminismo pretendano di sanzionare penalmente (magari con tanto di sconti di pena in caso di formale pentimento) [i negazionisti], contraddicendo in toto l’esortazione volteriana a battersi affinché il nostro avversario possa esprimere le proprie ragioni». Con l’aggravante che, così facendo, vengono meno proprio alla ragione stessa delle loro costituzioni e convenzioni, plasmatesi a seguito del crollo di quei totalitarismi che, in quanto a paternalismo e «stato etico» la sapevano lunga.

Il secondo pericolo è, al contrario, quello di privare il diritto penale della sua efficacia, rendendolo declamatorio di sanzioni solamente simboliche e, per di più, controproducenti. Si raggiungerebbe infatti, l’effetto opposto a quanto ci si propone, facendo risultare il negazionista di turno una vittima, piuttosto che un assertore di principi abominevoli e ripugnanti alla specie umana. Il caso precedentemente citato di Garaudy e delle difesa attuatane da Vergès ne sono un esempio; ma si potrebbero citare anche i casi di un altro francese, Robert Faurisson, sostenuto moralmente, proprio in forza della «massima volteriana», nientemeno che dal linguista e polemista ebreo americano Noam Chomsky, e del revisionista, negazionista e razzista britannico David Irving, per il quale sia le numerose accuse, sia i procedimenti intentatigli negli anni, hanno solo fatto da volano pubblicitario, rendendolo un martire e una celebrità fra negazionisti frustrati ed estremisti di vario genere.

L’inefficacia è poi conclamata quando si pensi alla diffusione del verbo negazionista sul web, con metodi che possono facilmente eludere il controllo legale. È stata ancora una volta la Francia a punire utenti che, su Internet, si erano resi colpevoli di frasi antisemite e incitanti all’odio razziale. Ciò che, nonostante lo zelo dei giudici, rimarrà il problema centrale, è che, per un negazionista punito in Francia o in Europa, altri cento ne spunteranno come funghi in Cina, Giappone, India, Malesia, o anche semplicemente a Parigi o a Berlino, se avranno l’accortezza di usare forme di navigazione criptata.

In ultima analisi, si potrebbe però pensare che la forte reazione legalistica della Francia rispetto non solo al negazionismo, ma anche più in generale all’antisemitismo, sia dovuta a un preoccupante dilagare di tali fenomeni all’interno dei confini nazionali. Già tradizionalmente, il negazionismo e il revisionismo rispetto alla Shoah avevano trovato una cospicua eco all’ombra del tricolore francese, tra personaggi di vario orientamento politico. Sempre più diffuso negli ultimi anni, per effetto tanto della presenza in scena di un certo numero di esponenti del mondo islamista, quanto della recente riscossa politica del Front National di Marine Le Pen. Non va dimenticato che l’attuale presidentessa del partito è figlia di quel Jean-Marie Le Pen che definì le camere a gas dei campi di sterminio nazisti, un mero «dettaglio nella storia della Seconda Guerra Mondiale».

3. Ora la questione, almeno in Italia, appare ridimensionata rispetto alle numerose polemiche, anche in sede parlamentare. Se terrà l’accordo di maggioranza, il negazionismo costituirà una ulteriore aggravante del reato di apologia, contenuto all’articolo 414 c.p., rubricato come Istigazione a delinquere. Già è previsto un aumento di pena della metà (lo stesso che si ipotizza per il negazionismo), nel caso in cui l’istigazione o l’apologia riguardino «delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità». In pratica quindi, un ulteriore comma che annunci la medesima aggravante per il negazionismo sarebbe del tutto superfluo. Per di più, la sola condotta di negazionismo, scollegata da istigazione a delinquere o esaltazione, in concreto pericolosa, del genocidio e dei suoi autori nazisti, atta a delineare il reato di apologia, non costituirebbe fattispecie penalmente rilevante e continuerebbe a rimanere non sanzionabile. Questa scelta dunque, risulterebbe una opzione di comodo, per dare qualche contentino. Ma un rischio ulteriore posto da questa tipologia di reati, in comune con quelli di vilipendio, è quello di creare una libertà di manifestazione del pensiero fondata su principi elitari. In altre parole, chi vilipende le istituzioni, o tesse le lodi di un criminale, elaborando argomentazioni capziosamente complesse, potrebbe risultare non sanzionabile, anche se effettivamente offendesse beni giuridici e diventasse assai visibile nell’arena pubblica; mentre colui che si limita alle invettive triviali e all’uso di «parolacce» potrebbe andare incontro alla punizione.

C’è un bambino in calzoni corti, con un berretto in testa e le calze tirate su quasi al ginocchio; è un bambino come se ne potevano incontrare tanti nell’Europa martoriata degli anni Quaranta. Ha le braccia alzate in segno di resa e, con lui, ci sono altre persone: donne, anziani, altri ragazzini. Un uomo in divisa, con un elmetto in testa, punta un’arma più o meno in direzione del bambino. Di quell’uomo, un membro delle SS, si conosce persino il nome, Joseph Blösche; è stato condannato a morte a Lipsia, nel 1969. Si tratta della foto-simbolo della risposta nazista alla insurrezione del ghetto di Varsavia. Negare ciò che essa testimonia non è un reato, è un abominio della ragione. Qualunque sottigliezza storica e filosofica sarebbe di troppo. Ci sono cataste di cadaveri: persone, troppe, che non rispondono più a qualunque appello; ci sono i racconti dei sopravvissuti in tutta Europa, negli Stati Uniti e in Israele; ci sono le riprese dei soldati alleati; ci sono i processi; ci sono i documenti; ci sono i luoghi dell’isolamento e dello sterminio (basta fare due passi a Varsavia, o nell’Alta Slesia). Negare è un abominio. Ciò che si deve fare, che si ha il dovere di fare, è mettere da parte i giochini intellettuali, la metastoria maliziosa, e comprendere una volta per tutte che negare quell’orrore, quel dolore che continua, tutt’ora, ad attraversare le coscienze, non è un reato, è la negazione stessa del nostro essere uomini e della nostra identità. Ricordare e non negare è dovere, è mitzvah.

Tutti gli altri discorsi che si affastellano incessantemente quando si affronta il tema del negazionismo, nella sua veste specifica di negazione della Shoah, sono superflui. Se ne è parlato dal punto di vista sociologico, storico, giuridico, politico e, perfino, semiotico e narrativo. Ma, in molti casi, si tratta di ovvietà, di sdegno, o di mere chiacchiere, più o meno intellettuali.

Recentemente, alcuni pensatori italiani, anche se verrebbe spontaneo riferirvisi adoperando l’ardita locuzione del giornalista del Corriere della sera Luca Mastrantonio, quando parla di «intellettuali del piffero», per l’attitudine a imbonire l’uditorio, hanno pontificato di strumentalizzazioni dello sterminio degli ebrei d’Europa e di verità imposte dai vincitori. Si è detto del dovere, nei confronti della specie umana, di ricordare i massacri e combattere chi si fa portavoce di posizioni e idee abominevoli, o anche semplicemente insostenibili; la cultura ebraica parla di mitzvah. La mitzvah del vero intellettuale è proprio questa: avversare il negazionismo sul piano culturale; compito che, date le competenze e le capacità intellettive degli avversari, non è nemmeno così gravoso. La vera sfida sarà invece quella di far ragionare coloro che danno credito ai non-ragionamenti dei negazionisti e dei razzisti, che sono purtroppo numerosi, adoperando mezzi razionali e persuasivi e senza ricorrere a pifferi di sorta. Allo stato attuale, il ricorso al diritto penale per sanzionare i negazionisti è solo uno dei tanti pifferi che fornisce la pia illusione di risolvere il problema.