Il catalogo delle riforme necessarie a rimettere in sicurezza i conti pubblici e ridare competitività all’Italia è piuttosto lungo, ma anche risaputo, e da molto tempo: economisti, think-tank e organizzazioni internazionali non si stancano di ribadire quali misure andrebbero prese, trovandosi di fronte a una costante inazione da parte della politica. L’unico campo in cui si è mosso davvero qualcosa negli ultimi anni, è quello delle pensioni, oggetto come noto del primo grande intervento dello scorso governo Monti, la riforma a firma del ministro Fornero. Missione compiuta, almeno qui? Non esattamente, se si considera che il lavoro svolto si presta ad essere disfatto dalle pronunce della Corte Costituzionale, sempre più protagonista della vita politica italiana di questi anni.

1. Come noto, già una volta, con la sentenza 116/2013, la Consulta è intervenuta di recente in materia pensionistica, dichiarando illegittimo il contributo di solidarietà che il governo Berlusconi e il governo Monti avevano previsto come misura straordinaria sulle pensioni sopra i 90 mila euro, per tre anni e mezzo. A sua volta, questa pronuncia seguiva la 223/2012, a suo tempo commentata su queste colonne, la quale aveva dichiarato illegittimo il taglio temporaneo dell’indennità di magistrati e alti funzionari pubblici, che era stato introdotto dal governo Berlusconi.

A seguito di un’ordinanza di qualche settimana fa del Tribunale di Palermo, sezione Lavoro, la Corte Costituzionale sarà ora chiamata a pronunciarsi sul cosiddetto blocco della perequazione contenuto nella riforma Fornero, ovvero il congelamento dell’adeguamento automatico previsto per far fronte all’erosione del potere d’acquisto ad opera dell’inflazione. E potrebbe provocare un nuovo terremoto nei conti pubblici, alla cui stabilizzazione aveva dato un contributo anche la misura in questione (l’INPS ha stimato un impatto complessivo della riforma Fornero di 80 miliardi di risparmi in 8 anni).

2. In tutti e tre i casi considerati (sia i due già decisi sia quello appena portato all’attenzione della Corte), le censure vertevano sul fatto che le misure in questione costituivano nei fatti un tributo, che i giudici (costituzionali o, nel caso di Palermo, quello cosiddetto a quo) hanno ritenuto produrre una disparità di trattamento ingiustificata rispetto ad altri contribuenti rimasti esenti dal prelievo: è vero che la situazione è eccezionale e questo giustifica interventi in qualche misura straordinari per stabilizzare la finanza pubblica, ma tale obiettivo non può essere perseguito tramite prelievi straordinari a carico soltanto di alcune categorie.

In particolare, nel caso del blocco della perequazione, il Tribunale di Palermo, nel rimettere la questione alla Consulta, ricorda che già in passato misure analoghe erano state oggetto di censure di illegittimità, ma la Corte le aveva salvate, sulla base dell’eccezionalità della situazione, avvertendo però che la “frequente reiterazione” di tali misure, rendendo insufficiente la difesa del potere d’acquisto dei percettori di reddito pensionistico, violerebbe i principi di ragionevolezza e proporzionalità, e dovrebbe pertanto essere considerata illegittima.

Vi sono dunque ampie possibilità che questo nuovo blocco della perequazione, mettendo in atto proprio quella “reiterazione” contro cui aveva messo in guardia la Corte, incorra in una censura di illegittimità da parte di quest’ultima, completando un poco commendevole tris.

Peraltro, la sentenza sul contributo di solidarietà conteneva sul finale un riferimento anche alla questione dei diritti acquisiti, ovvero all’esistenza di situazioni di vantaggio sul cui mantenimento nel tempo i percettori di pensione hanno fatto ragionevole affidamento. Andare a modificare le quali pone quindi particolari problemi di ordine costituzionale: la Corte ricorda infatti la natura di retribuzione differita del reddito pensionistico, che fa sì che esso si sia già consolidato nel suo ammontare, per cui andare a modificarlo ex post rischia sempre di produrre un’ingiustificata discriminazione a favore di chi, ancora al lavoro, può ancora orientare le proprie scelte in funzione dell’intervenuta modifica.

Ma allora, ci si può chiedere, nessun intervento straordinario sulle pensioni è effettivamente possibile, senza incorrere nelle censure della Corte Costituzionale? La domanda è particolarmente rilevante perché i risparmi della riforma Fornero, benché consistenti, non sono sufficienti a mettere in sicurezza un sistema sempre più sotto pressione.

Un po’ di numeri aiutano a mettere a fuoco il problema: secondo un rapporto Ocse appena pubblicato, l’Italia ha speso per pensioni nel 2010 il 15,4% del PIL, contro una media Ocse del 9,3%; e non è un caso, visto che andiamo in pensione a 61,1 anni (uomini) e 60,5 (donne), contro una media rispettivamente di 64,2 e 63,2.

Del resto, come riportato dal Sole 24 Ore, l’INPS ha chiuso il 2012 con una perdita di 9 miliardi, che il Consiglio di vigilanza stima si ripeterà nel 2013 (9,2 miliardi), e aumenterà a 10 nel 2014 e 2015: il disequilibrio tra entrate e uscite per prestazioni pensionistiche è strutturale (per il solo 2013, le entrate da contributi sono previste in 213 miliardi, a fronte di una spesa per erogazione di pensioni quantificata in 266 miliardi), ma un colpo di grazia è stato dato dall’incorporazione dell’INPDAP, la cassa dei dipendenti pubblici, che insieme ad altre casse minori anch’esse confluite nell’INPS ha portato in dote un buco clamoroso (bilancio in rosso di 7,6 miliardi nel 2012, mai in attivo negli ultimi vent’anni, disavanzo di 16 miliardi nel 2010, di 14 nel 2009).

E se una parte non trascurabile dei risparmi portati dalla riforma Fornero verrà mandata in fumo proprio da una sentenza di illegittimità del blocco delle perequazioni, il quadro non potrà che peggiorare.

Ecco che risultano particolarmente attuali le proposte di ulteriore intervento sul sistema pensionistico, avanzate negli ultimi mesi in previsione delle necessità future: fra le più rilevanti, quelle comparse sul noto blog economico LaVoce.info, su Ateniesi.it (uno dei principali siti dei sostenitori del neo-segretario PD Matteo Renzi), e sul Corriere in una lettera del Senatore di Scelta Civica Pietro Ichino.

Non è questa la sede per entrare nei dettagli delle singole proposte, ma in generale possiamo dire che esse molto opportunamente cercano di affrontare il problema delle cosiddette pensioni d’oro, e in particolare quelle che risultano tali non perché corrispondenti a contributi effettivamente versati (rispetto alle quali non dovrebbe esservi alcuno scandalo), ma perché prodotte da quel vastissimo trasferimento di ricchezza intergenerazionale che va sotto il nome di sistema retributivo, ovvero quello che calcolava la pensione sulla base non dei contributi, ma dello stipendio degli ultimi anni.

Il sistema retributivo è stato definitivamente superato dalla riforma Fornero per il futuro, ma gli sconquassi prodotti nei conti pubblici in passato continuano a produrre oggi i propri effetti, ed è per questo che le proposte ricordate cercano di porre un rimedio, andando a modificare le pensioni che risultano essere troppo generose rispetto a quanto effettivamente versato.

3. Alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale, occorre però chiedersi, a questo punto: anche questi interventi sono destinati a subire le censure della Consulta? Anche un intervento che riduca le pensioni in eccesso rispetto ai contributi versati, e le riconduca a un livello ad essi parametrato, va considerato un tributo straordinario, riservato a una sola categoria di persone come il taglio dei mega-stipendi pubblici, il contributo di solidarietà, o il blocco delle perequazioni?

L’eventualità può e deve essere esclusa. A ben vedere, infatti, sono le norme del passato che hanno previsto l’erogazione di pensioni con il sistema retributivo a dover essere considerate ingiuste, per il fatto di concedere un beneficio economicamente del tutto insostenibile a una determinata categoria di persone, ingiustificatamente privilegiando queste a danno di altre, in particolare i contribuenti futuri.

Per come è congegnato, il nostro sistema costituzionale prevede la possibilità di censure solo in modo unidirezionale, ovvero consente a chi è escluso da un beneficio di chiedere che venga esteso anche a lui, ma non che venga rimosso per gli altri. Nella fattispecie, chi oggi va in pensione con il contributivo potrebbe astrattamente far valere la discriminazione nei confronti di chi ci è andato col retributivo, e chiedere che anche a lui venga applicato questo sistema più favorevole (la censura verrebbe con ogni probabilità respinta nel merito, ma non sarebbe inammissibile). Ma nessuno avrebbe mai potuto contestare la legittimità del retributivo, perché insostenibile economicamente, o discriminatoria ai danni delle generazioni future (in questo caso la doglianza sarebbe stata considerata proprio inammissibile).

Nel momento in cui si intervenisse a ridurre il privilegio concesso in passato con le pensioni retributive, dunque, si andrebbe a rimuovere una situazione di ingiustificato vantaggio, contro la quale non vi erano effettivamente rimedi di carattere costituzionale disponibili. Ciò detto, di discriminazione ingiustificata si trattava. Pertanto rimuoverla, lungi dal costituire una discriminazione a sua volta, non farebbe altro che sanare una situazione di illegittimità pregressa, che troppi danni ha prodotto ai contribuenti oggi e di domani.