È dallinizio dellera digitale che linnovazione si presenta a ondate. Ogni nuova ondata porta a un punto di rottura con il passato. Un po come i cambi di paradigma scientifico descritti da Thomas Kuhn.

Da una fase di normale lavoro di ricerca si passa a una fase rivoluzionaria e quindi al superamento del paradigma regnante. Nessuno capiva negli anni novanta come si potesse computare su di un solo floppy disk; oggi, dopo l'avvento del cloud computing, possiamo benissimo iniziare a fare a meno dello hard disk; un domani potremmo anche chiederci come facevamo senza il cloud; e via discorrendo. Da qualche tempo, in certi ambienti, non si parla che di Internet of Things, l'Internet delle cose. In futuro, si dice, non ci sarà più bisogno di cercare un gommista a ogni foratura. Il cruscotto riscontrerà che il sensore della gomma posteriore sinistra dice che la gomma è forata; cercherà il gommista aperto più vicino; e magari inizierà anche una ricerca sul costo a partire dalla garanzia dell'auto e dai servizi post-vendita acquistati dal pilota. Il migliore dei mondi possibili? Non proprio, se guardiamo oltre la mera logistica dei pezzi di ricambio.

1. Nel raccontarci l'innovazione tecnologica degli ultimi due secoli abbiamo impiegato due generi narrativi tipici della modernità, il racconto utopico iniziato da Thomas Moore e quello distopico tipico della letteratura post-Illuminista. Le riflessioni più sobrie in genere evitano questi due estremi narrativi per prendere una posizione più sfumata. La stessa cosa è successa per Internet of Things. Basta cercare in rete per trovare ogni specie di racconto irenico su come, a breve, tutto il mondo delle cose sarà a nostra disposizione a comando; o su come, a breve, tutte le cose che ci circondano ci si rivolteranno contro. Quelli che hanno un qualche investimento nella promozione di un particolare dispositivo o servizio spesso ci marciano con i racconti irenici. Il loro obiettivo è di promuovere l'idea di come si sia giunti a un punto di rottura, dopo il quale nulla sarà più come prima. È per questo motivo che tali racconti paiono self-fulfilling prophecies, profezie che si avverano da sole. Parole. Ma se gli irenici non paiono credibili, hanno forse ragione gli apocalittici? Non necessariamente, visto che per la gran parte si tratta di persone che odiano la tecnologia, o che parlano ideologicamente per partito preso. Il racconto dell'innovazione passa fra questa Scilli e Cariddi, anche se in genere lo si scopre solo con lo sguardo del gufo Minerva: lo sguardo rivolto all'indietro. Lo sguardo storico.

Che cosa potremmo quindi dire sulla Internet of Things volendo evitare sia il discorso utopico che il discorso distopico? Come predire la traiettoria dello sguardo retrospettivo, senza per questo divenire apocalittici? Procedendo con grande cautela. Vediamo come.

2. A coniare il termine Internet of Things fu Kevin Ashton nel 1999. In un paper pubblicato quell'anno sul RFID Journal, Ashton paragonò l’avvento di questo nuovo sistema all’avvento stesso della rete. “The internet of things has the potential to change the world, just as the Internet did. Maybe even more so.” Quando ogni cosa sul pianeta avrà un suo indirizzo IP, e ci saranno sensori RF (a radio frequenza) capaci di rintracciarli nello spazio, Internet non sarà più dominata dalle idee, ma dalle cose. Prima di Internet of Things, tutto quello che si sapeva delle cose era in origine una idea: una parola battuta su di una tastiera, una barra o un QR code scansionato, o una immagine catturata da un dispositivo ottico. Nella nuova era, le cose parleranno alle cose senza l'intervento delle persone, e quindi senza l'intervento di idee estranee alle cose. Noterete che alla base di questo discorso c'è la classica distinzione fatta nel secondo ottocento dal fisico Wilhelm Windelband fra scienze ideografiche e scienze nomotetiche, fra scienze normative (capaci di dettare norme assiomatiche) e scienze descrittive (capaci solo di ri-presentare il loro oggetto come descrizione). In altre parole, fra ciò che è numero e ciò che è parola. Il problema della parola è che è polisemica, e quindi talvolta ambigua: in una stessa lingua (“vago” significa indistinto; ma anche, bello) o in traduzione (“platano” è un albero in italiano, ma una banana in spagnolo). L'Internet delle cose eviterà le ambiguità delle parole e delle immagini descrivibili a parole per dedicarsi solo alla certezza dei numeri. Al forarsi di una gomma, non ci potrà più essere dubbio alcuno sulla posizione nello spazio di una gomma identica e pronta al ricambio. Quindi ecco risolto uno dei problemi fondamentali della logistica: ma è questa soluzione applicabile a settori diversi? Sì, a patto che si rimanga all'interno della nomotetica, ossia della logica della mera computazione numerica. Non appena si attraversa il confine con l'ideografica, non appena si parla di un contenuto ideografico e non numerico ecco nascere i problemi.

a. Il primo problema che incontra Internet of Things non appena incrocia il campo ideografico riguarda la privacy. Se non ci può essere difficoltà alcuna a trasmettere i rilievi di un nostro sensore alla rete che collega le rimesse dei gommisti, non appena quei rilievi registrano una nostra idea, immagine, o suono, si presenta la questione della privacy. Ovvero, la trasparenza automatica e involontaria che caratterizza la Internet of Things deve necessariamente regredire alla trasparenza volontaria che caratterizza la nostra presenza in rete. Se decido di segnalare passivamente la mia condizione di fumatore, allora il rifornimento di sigarette potrà automatizzarsi. Altrimenti, no. Se qualche automatismo mi designasse “fumatore” a mia insaputa, mi sentirei defraudato della mia privacy e chiederei di essere rimosso dalla lista di fumatori disponibile a mia insaputa, e in perfetta trasparenza, a chiunque voglia acquisire il dato, incluse le assicurazioni e il mio datore di lavoro.

b. Il secondo problema riguarda la sicurezza. È dall’undici settembre 2001 che viviamo all'ombra dello spettro terroristico. Si può discutere a lungo sulla reale consistenza di questo spettro, ma è un dato di fatto che qualsiasi attività esposta ad un attacco potenziale si organizza come se quella potenzialità fosse imminente. Pensare che un giorno i sensori remoti registrino e approvino in automatico questioni inerenti la nostra identità legale, senza un ulteriore controllo documentario, è immaginare di vivere in un mondo irenico in cui ogni attività terroristica è scomparsa. Hanno quindi ragione gli apocalittici quando dicono che, in realtà, la casa di vetro inventata dall'estensione della Internet of Things a ogni cosa è “il dono di Dio” a chi ci sorveglia? Non è che forse tutta questa ingenuità irenica non sia altro che un complotto per catturare una messe enorme di dati su di noi in tempo reale? Se tutto fosse dotato di un segnale identificativo (dalle banconote alle carte di credito, da i nostri documenti d'identità alla nostra automobile) in che mondo vivremmo? In un simile mondo, il 1984 di  Orwell sarebbe una fiaba per tranquillizzare i bambini la sera. Con simili trasparenze, chi ci controlla - e chi ruba dati a chi ci controlla - saprebbe dai sensori quanto denaro abbiamo in tasca, dove siamo e dove stiamo andando. Lo saprebbe in tempo reale, e lo saprebbe nel contesto di tutte le altre informazioni che possiede. In un simile contesto, il nostro agire e l'agire degli altri formerebbe una configurazione, che in quanto tale, e indipendentemente dalle nostre intenzioni, potrebbe ingenerare una contingenza a cui la polizia potrebbe voler dedicare attenzione. In un simile mondo la libertà sarebbe solo un pallido ricordo, e la sicurezza solo la scusa legittima per l'operare indisturbato di un potere illegittimo.

3. Alla luce di quanto detto, ci auguriamo che l'Internet of Things rivoluzioni la scienza che governa la logistica del cambio delle gomme e similia. Ma riterremmo un pericolo e una aberrazione la presenza di codici RF sulle banconote, sulle carte di credito, sui documenti di identità, e similia, a meno che questi codici non vengano inseriti con degli interruttori on/off a nostra disposizione. Un conto è usare una carta di credito. Un altro è entrare in un negozio in cui, ma nostra insaputa, la nostra carta appaia su di un display alla disposizione del commesso. Non vorremmo ricevere attenzioni speciali in virtù del nostro plafond residuo, o non riceverne per lo stesso motivo. Non vorremmo che un giorno le nostre infrazioni venissero rivelate da un sensore passivo, come fossimo gregge al pascolo. E non lo vorremmo non per eludere la legge, ma per non dover passare ore interminabili a contestare la contravvenzione elevata da un sensore avariato. Perché tutta la nomotetica del mondo cade di fronte alla fallibilità dei nostri strumenti di rilievo, che possono rimanere abbagliati, possono perdere la taratura, o possono semplicemente rompersi. Da quando la logistica ha disperso miriadi di sensori in ogni componente aeronautico, sono aumentati i ritardi di volo dovuti alla sicurezza della componentistica. Un sensore fuori fase poteva un tempo causare notevoli ritardi al gate o sulla pista. Immaginate un futuro in cui ogni singola cosa che compone un aereo abbia un sensore, dalla più piccola delle lampadine di una ritirata, alle scarpe del vostro vicino di posto. Ecco, l'Internet of Things può davvero costituire la fine del volo aereo così come lo conosciamo.

Non rimane quindi che la cautela, e la capacità di distinguere le narrazioni dalla strada che ragionevolmente potrà prendere l'innovazione. Strada sconnessa e tortuosa almeno quanto la natura umana.