Una delle fondamentali sentenze del diritto europeo, Costa c. Enel, fu pronunciata in un procedimento nato da una semplicissima bolletta non pagata, che però diede modo alla Corte di pronunciarsi su alcuni punti di principio in maniera mai più rimessa in discussione da allora. Qualcosa di molto simile potrebbe accadere se la nostra Corte Costituzionale accogliesse anche solo alcune delle questioni di legittimità sollevate dalla commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia con riferimento al sistema della giustizia tributaria.

1. La vicenda da cui è originata la remissione alla Consulta, e di cui ha dato notizia il Prof. Angelo Contrino per Ipsoa Quotidiano, concerne infatti una «cartella di pagamento contenente iscrizione a ruolo per tassa e sanzioni relative ad un omesso versamento di tassa cc.gg. per telefonia mobile», del valore di soli 98 euro. Eppure, i giudici erano evidentemente in attesa di un caso qualunque per sollevare questioni fondamentali riguardanti l’organizzazione della giustizia tributaria.

L’ordinanza in questione, la 280/3/14 (Pres. Est. Montanari, Rel. Gianferrari), blocca il giudizio sulla cartella di pagamento da 98 euro sull’uscio, prima ancora che esso abbia a iniziare, mettendo in dubbio la legittimità stessa di quello come di qualunque altro processo tributario, dal punto di vista dell’insufficiente indipendenza e imparzialità dei giudici.

La portata è dirompente: con una decisione assolutamente inedita, i giudici tributari del collegio di Reggio Emilia hanno cioè deciso, per giunta spontaneamente e senza neppure una richiesta della parte destinataria della cartella, di mettere in discussione se stessi e la propria indipendenza e imparzialità nel giudicare, chiedendo alla Corte Costituzionale di valutare se una serie di caratteristiche delle modalità di nomina e organizzazione dei giudici tributari non inficino appunto la indipendenza e imparzialità loro, come di qualunque altro giudice di qualunque altro collegio di qualunque altra commissione tributaria del Paese. Se così fosse, nessun collegio sarebbe validamente costituito e l’intero sistema crollerebbe, e vi sarebbero anche validissimi motivi per rimettere in discussione qualunque sentenza passata, perché sarebbe stata pronunciata da giudici non indipendenti né imparziali.

2. Quali sono, allora, i punti sollevati nello specifico dai giudici emiliano-romagnoli? Il ragionamento è tutto giocato sulla compatibilità del nostro ordinamento tributario con i principi del giusto processo, tutelati non solo dalla nostra Costituzione, ma soprattutto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che indirettamente ha anch’essa un valore sostanzialmente costituzionale e a cui quindi le nostre leggi devono conformarsi.

Per la verità, come l’ordinanza stessa ricorda, la Corte di Strasburgo, che giudica sul rispetto della CEDU da parte degli Stati Membri, ha stabilito che le garanzie del giusto processo non si applicano tendenzialmente all’ambito tributario: in una sentenza del 2001 riguardante proprio l’Italia, la Corte europea, nella sua composizione più allargata, ha infatti chiarito per undici voti a sei che «le controversie fiscali cadono al di fuori dell’ambito di applicazione dei diritti e doveri di carattere civile [di cui all’art. 6 della Convenzione, Diritto a un equo processo], nonostante gli effetti patrimoniali che essi necessariamente producono per il contribuente».

Ciononostante, i diritti garantiti dalla CEDU non sono del tutto irrilevanti in ambito fiscale. In particolare, uno studio del Prof. Alberto Marcheselli ha notato come venga in rilievo il diritto di proprietà, su cui naturalmente incidono le misure fiscali, e che è protetto dall’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU; inoltre, le stesse regole del giusto processo, di cui all’art. 6, non possono essere trascurate almeno quando il processo tributario riguardi delle sanzioni, anche soltanto amministrative, a carico di un cittadino o di un’impresa.

Accogliendo in pieno questa impostazione, l’ordinanza della Commissione Tributaria ritiene dunque che non ci si possa fermare a quanto, un po’ sbrigativamente, stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2001, e si debba chiedere alla Corte Costituzionale italiana di valutare se, nonostante questo precedente europeo, la giustizia tributaria italiana violi in realtà eccome i parametri del giusto processo, come elaborati dalla stessa Corte Europea in tutta una serie di altre pronunce.

In particolare, dopo aver considerato e scartato alcuni possibili profili di illegittimità del modo in cui è costruito il nostro sistema di giustizia tributaria, i giudici di Reggio Emilia ne individuano quattro che appaiono invece giustificare un pronunciamento della Corte Costituzionale. In primo luogo, il fatto che la giustizia tributaria italiana sia «inquadrata [...] nello stesso plesso ministeriale dell’amministrazione che emana gli atti da controllare e la articolazione amministrativa che vi è preposta è “parallela” a quella preposta alle Agenzie che emanano gli atti da controllare», con il corollario che «la selezione, formazione, assegnazione, vigilanza, determinazione dello stato giuridico economico, determinazione degli obiettivi, valutazione della produttività, progressione in carriera e giudizio disciplinare del personale amministrativo preposto alla Giustizia Tributaria e la sua supervisione sulla organizzazione dei relativi uffici dipende dalla stessa Amministrazione che emana gli atti amministrativi soggetti al controllo giurisdizionale».

Poi, vi è il problema dell’assenza di potere direttivo dei giudici tributari sul personale amministrativo delle commissioni tributarie, che dipende invece dal Ministero i cui atti i giudici devono valutare, il che contribuirebbe a menomare la loro indipendenza da una delle parti in causa. Collegata a questo aspetto, vi è poi la questione della mancanza di un budget autonomo a disposizione dei giudici tributari per il funzionamento dei loro organi, essendo anche questo budget interamente rimesso al Ministero dell’Economia e delle Finanze. Infine, ancora in stretto legame alle altre questioni, vi è la considerazione che «il compenso [dei giudici tributari] è determinato dal vertice dell’amministrazione controllata, la liquidazione è disposta dall’organo cui sono imputabili la più gran parte degli atti impugnati e il pagamento effettuato materialmente dall’organo ausiliario del giudice, istituzionalmente dipendente dalla amministrazione controllata»: un ulteriore fatto che renderebbe i giudici fiscali insufficientemente indipendenti e imparziali rispetto all’amministrazione i cui atti sono chiamati a scrutinare.

3. Le considerazioni svolte dall’ordinanza rispecchiano l’opinione di molti operatori del settore, oltreché, come si ricordava, di autorevole dottrina. Ma mai erano state fatte proprie dai giudici “contro se stessi”. Il modo in cui è configurato il sistema di tutela dei diritti fondamentali nel nostro ordinamento impedisce al singolo di portare una questione di costituzionalità direttamente all’attenzione della Corte Costituzionale. L’unico rimedio alternativo era appunto quello di attendere la fine di un processo interno e poi cercare giustizia a Strasburgo, ma la ricordata giurisprudenza europea non sembra dare molte speranze di successo a chi voglia (nuovamente) intraprendere quella via.

La scelta dei giudici di Reggio Emilia di sollevare una questione di propria spontanea iniziativa fa sì invece che la questione dovrà a questo punto essere affrontata dai nostri giudici costituzionali. Assai difficilmente essi potranno accogliere tout-court le censure contenute nell’ordinanza, perché l’intero sistema di giustizia tributaria italiana ne verrebbe travolto. Ma altrettanto difficilmente potranno ignorare almeno alcune delle questioni poste dall’ordinanza, la cui fondatezza appare piuttosto ben argomentata dalla stessa. Sarà dunque un caso da seguire, perché la Corte avrà davanti a sé un’alternativa piuttosto insidiosa: o costringere il legislatore a riformare dalle fondamenta la giustizia tributaria, o affermare apertamente che in materia tributaria, anche quando si discuta di sanzioni, non valgono i principi del giusto processo.